Vai al contenuto

Hollywood come un campo di battaglia: quando Orson Welles notò Oriana Fallaci

Pubblicato: 06/05/2025 09:35

Cosa ci faceva Orson Welles, l’uomo che a 25 anni aveva già spaventato l’America con la Guerra dei Mondi e sconvolto Hollywood con Quarto Potere, a firmare la prefazione del primo libro di una giovanissima giornalista italiana? Semplice: riconosceva una voce potente, unica nel suo genere. E non poteva resistere al fascino di un altro ego esplosivo, quello di Oriana Fallaci. 

Era il 1958, e I sette peccati di Hollywood era molto più che una raccolta di articoli: era un guanto di sfida. Oriana Fallaci, arrivata da Firenze con la penna affilata e l’eye-liner deciso, passava ai raggi X l’industria del cinema americano con uno sguardo che mescolava ferocia, humour e una lucidità rara in quegli anni. Un libro, pubblicato per la prima volta da Longanesi, che si legge come un processo (e non sempre a porte chiuse). 

Oggi, nel giorno in cui Orson Welles avrebbe compiuto 110 anni (era nato il 6 maggio 1915 a Kenosha, Wisconsin) vale la pena ricordare l’incrocio brillante tra due fuoriclasse, entrambi allergici al conformismo, come pure divoratori di realtà, avidi di andare oltre il velo dell’apparenza. A unirli, non fu solo un breve incontro a Hollywood, raccontato recentemente anche nella serie tv Miss Fallaci: fu il riconoscimento reciproco di due intelligenze sopra la media, ciascuna ben consapevole del proprio magnetismo.

Orson Welles scrisse un’introduzione memorabile per I sette peccati di Hollywood, il libro d’esordio della Fallaci, appena ventottenne. «Quel che ammiro nel resoconto della signorina Fallaci non è dunque il rispetto della verità, ma quel tocco originale che s’aspettava da tempo», annotava il regista, con quel tono ironico e al contempo solenne, che un po’ la sua cifra. La paragonava a Mata Hari, sottolineando come Oriana Fallaci sapesse «nascondere la giornalista più agguerrita sotto la più ingannevole delle maschere femminili». Era un complimento serio, nella Hollywood degli anni Cinquanta, dove la grazia era spesso una trappola e il potere si misurava in sorrisi finti e segreti ben custoditi. Eh sì, perché ne I sette peccati di Hollywood la giornalista spiava dal buco della serratura i grandi divi, rivelandone drammi, ossessioni e debolezze.

Il libro nasceva da un fallimento, almeno in apparenza: l’intervista mancata a Marilyn Monroe. La giornalista fiorentina la inseguì per tre anni, tra Los Angeles e New York, perfino passando un pomeriggio con Arthur Miller nell’attesa che l’attrice si presentasse con un caffè sul vassoio. Niente da fare. Eppure proprio da quella assenza nasce il tono tagliente del saggio, la consapevolezza che non intervistare Marilyn fosse più rivelatorio che incontrarla. L’ha scritto la stessa Fallaci: «Chi dice Hollywood pensa subito a Marilyn Monroe. Ma è inutile che cerchiate in questo libretto un ritrattino o una intervista con Marilyn Monroe. Non c’è. […] Ho subìto le loro lacrime, le loro bugie, la loro boria, ma non ho mai, dico mai, parlato a quattr’occhi con la signorina Jean Mortenson, in arte Marilyn Monroe. […] La mia avventura con la Monroe è la più assurda che possa capitare a una giornalista».

Orson Welles aveva fiuto per queste cose. Aveva capito che in quella ragazza italiana c’era una carica esplosiva, non solo intellettuale, ma narrativa. Oriana Fallaci, infatti, non si limitava ad osservare Hollywood: la smontava, la sezionava, ne metteva a nudo i vizi con una precisione clinica e uno humour affilato. Un po’ come farebbe un bambino curioso alle prese con un giocattolo. In sette capitoli (uno per ciascun peccato) la scrittrice fu abile a costruire un’antropologia feroce del divismo. Lussuria, Superbia, Avarizia: ogni intervista era una trappola elegante, un campo minato su cui si muovevano incerte le star dall’alto dei loro vertiginosi tacchi.

L’intesa con Orson Welles fu intensa, profonda. Lui la stimava e la prendeva sul serio (cosa rara per una giornalista così giovane, e per di più donna, in quel contesto). Lei, dal canto suo, riuscì a conquistarlo senza adulazioni. Lo sorprese, tutto qui. E a modo suo lo raccontò, nel sottotesto di quel libro, con la spavalderia di chi sa di avere uno sguardo troppo mordace per piacere a tutti. I sette peccati di Hollywood, a lungo introvabile, è stato ripubblicato recentemente nella collana BUR di Rizzoli.

Un bene per i lettori, proprio perché in quelle pagine c’è già tutta la Fallaci che verrà: la capacità di entrare nei mondi altrui con una discrezione apparente, la voracità del dettaglio, l’antipatia come arma professionale (e di difesa). E c’è anche il Welles prefatore, mattatore anche quando scrive, che sa scorgere il talento, proprio come si riconosce un altro animale della propria specie. Welles faceva cinema come fosse guerra. Miss Fallaci cominciava a fare giornalismo come fosse letteratura. Fu l’incontro incredibile di due solitudini, si capirono al volo. Bastò un’occhiata.

Continua a leggere su TheSocialPost.it

Hai scelto di non accettare i cookie

Tuttavia, la pubblicità mirata è un modo per sostenere il lavoro della nostra redazione, che si impegna a fornirvi ogni giorno informazioni di qualità. Accettando i cookie, sarai in grado di accedere ai contenuti e alle funzioni gratuite offerte dal nostro sito.

oppure