
Il cardinale Matteo Maria Zuppi è una delle figure più carismatiche e originali della Chiesa contemporanea. Amato per il suo stile diretto e per l’autenticità del suo approccio, è spesso definito un “prete di strada”, nonostante oggi sia uno dei cardinali più influenti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana. La sua fede operosa e la vicinanza concreta agli ultimi gli hanno guadagnato stima dentro e fuori dall’ambiente ecclesiastico.
Eppure la sua storia parte dalla borghesia romana, in una famiglia profondamente legata al mondo vaticano: il padre Enrico era giornalista e fotografo per l’Osservatore della Domenica, la madre Carla era nipote del cardinale Carlo Confalonieri, decano del Collegio Cardinalizio. Ma Zuppi ha scelto le periferie, quelle geografiche ed esistenziali. Si è formato nella Comunità di Sant’Egidio, e fin dall’inizio del suo ministero ha mostrato un’attenzione particolare per poveri, migranti, tossicodipendenti e malati.
Dopo essere stato ordinato sacerdote nel 1981, ha operato in contesti difficili di Roma, rifiutando incarichi prestigiosi in favore di comunità segnate da disagi e fragilità. Simbolica la sua decisione, nel 2000, di lasciare la storica Santa Maria in Trastevere per guidare la parrocchia di Torre Angela, periferia dura della Capitale. Una scelta di coerenza, che dice molto della sua idea di Chiesa: una comunità che scende in strada e si sporca le mani.

Oltre che pastore, Zuppi è stato anche mediatore. Negli anni ’90 fu uno degli artefici della pace in Mozambico, dopo una lunga guerra civile. Anni dopo, nel 2023, papa Francesco lo ha scelto come suo inviato speciale per la pace in Ucraina, affidandogli una missione complessa tra Kiev, Mosca, Washington e Pechino. Il suo obiettivo non era politico, ma evangelico: aprire spazi di dialogo, proteggere i più vulnerabili, portare conforto.
Nel 2015 è diventato arcivescovo di Bologna e, nel 2019, cardinale. Anche da cardinale non ha cambiato stile: vive con altri preti anziani, si muove in bicicletta, incontra persone ai margini. Le sue omelie, semplici ma profonde, toccano temi come pace, giustizia, accoglienza. È uno dei principali interpreti della visione di Chiesa di Francesco: una Chiesa “ospedale da campo”, che accompagna l’umanità ferita e rifiuta la logica del potere.
Come presidente della Cei, ha rilanciato con forza l’impegno della Chiesa per i migranti. Ha sostenuto missioni di salvataggio in mare e promosso progetti come “Protetto. Rifugiato a casa mia”, in collaborazione con la Caritas. Per Zuppi, l’accoglienza non è ideologia né assistenzialismo, ma una diretta conseguenza del Vangelo: “Non possiamo chiudere il cuore. Non possiamo scegliere chi amare. Anche Gesù è stato un profugo”.

Il suo sguardo va oltre l’emergenza: Zuppi collega le migrazioni a guerre, disuguaglianze, crisi climatiche. Sa che chi fugge non lo fa per scelta, ma per necessità. Per questo invita la comunità cristiana a impegnarsi in una giustizia globale, a costruire un mondo dove nessuno sia costretto a lasciare la propria terra. Il suo è un messaggio profondo di solidarietà e responsabilità collettiva.
Non sono mancate critiche al suo operato, ma Zuppi risponde con la calma di chi testimonia più che predica. Alla paura oppone la fede, alla chiusura il Vangelo. Per lui, accogliere il migrante significa accogliere Cristo stesso. E la Chiesa, per essere davvero madre, deve essere casa per tutti, non rifugio per pochi. Con convinzione, continua a camminare tra le periferie del mondo e dell’anima, dove il Vangelo trova la sua voce più vera.