
New York – I Premi Pulitzer 2025 si sono trasformati in una dichiarazione politica esplicita, un baluardo contro quella che molti editori e giornalisti descrivono come una stagione buia per la libertà d’espressione negli Stati Uniti. «Il Primo Emendamento è sotto attacco, e con esso la democrazia», ha affermato Marjorie Miller, amministratrice del premio, nel suo discorso di apertura alla Columbia University. Una frase che, nell’America tornata sotto la guida di Donald Trump, ha il suono di un allarme acceso.
Le parole di Miller non sono rimaste sospese nell’aria. A vincere, quest’anno, sono stati in larga parte i media apertamente critici nei confronti del presidente, in un’edizione che ha assunto i toni di una sfida: celebrare un giornalismo coraggioso, ostinato, spesso nel mirino del potere.
Il Washington Post ha ottenuto il Pulitzer per le breaking news con la copertura lampo dell’attentato contro Trump durante la campagna elettorale. Un evento traumatico, narrato con precisione chirurgica. Al New York Times è andato invece il premio per la fotografia, grazie a immagini che hanno documentato il caos e la tensione di quelle ore.
Sul fronte internazionale, il New Yorker si è imposto per i suoi commenti sulla crisi in Medio Oriente, in particolare sulla carneficina a Gaza. L’Ucraina ha prodotto diverse nomination, ma nessun riconoscimento finale, mentre il Pulitzer internazionale è andato al New York Times per la copertura del conflitto in Sudan, e altri premi hanno ricordato le guerre irrisolte in Afghanistan e Iraq.
Nel giornalismo investigativo ha brillato Reuters, con un’inchiesta incisiva sul traffico di fentanyl, il potente oppiaceo che continua a devastare comunità in tutti gli Stati Uniti. Il Wall Street Journal, invece, ha vinto nella categoria politica nazionale per aver ricostruito nei dettagli la rete di influenze e interessi che lega Donald Trump a Elon Musk, in un mix di affari, propaganda e ambizioni personali.
Particolarmente toccante il premio assegnato a ProPublica, per un’inchiesta sulla strage silenziosa delle donne americane costrette a partorire o a morire, in conseguenza delle leggi che vietano l’aborto in numerosi Stati. Un lavoro di enorme impatto sociale, che ha ridato voce a un dramma diventato quotidiano.
Eclatante anche il caso Ann Telnaes: la storica vignettista del Washington Post, licenziata dopo una vignetta che prendeva di mira il suo stesso editore, Jeff Bezos, è stata premiata come simbolo della libertà d’espressione. Un gesto forte, che ha fatto rumore anche fuori dai circoli del giornalismo.
L’attenzione alla diversità è stata un altro tratto distintivo di questa edizione. Sono stati premiati diversi lavori sulle minoranze, ma il riconoscimento più significativo è andato a Chuck Stone, celebrato con una special citation per la sua carriera pionieristica come giornalista afroamericano impegnato nella lotta per i diritti civili.
Sul versante letterario, nessuna sorpresa: il Pulitzer per la narrativa è stato assegnato a Percival Everett per James (edito in Italia da La nave di Teseo), rilettura dirompente e commovente del classico Huckleberry Finn, che riscrive la storia americana dalla prospettiva dello schiavo Jim.
Il risultato complessivo è un Pulitzer che non si nasconde dietro l’equidistanza, ma prende posizione. In un’America in cui la stampa è tornata ad essere definita “nemica del popolo” dai vertici della Casa Bianca, i premi di quest’anno sono una risposta netta: non solo resistere, ma rilanciare. A costo di pagare un prezzo.
E come ha ricordato qualcuno alla Columbia, citando Jefferson senza troppa diplomazia: «Preferirei giornali senza governo piuttosto che un governo senza giornali». Sembra passato un secolo. Ma oggi, in realtà, è esattamente il tema.