
La scena che si delinea a poche ore dall’inizio del Conclave non è quella, lineare e quasi scontata, di un’elezione pilotata da un fronte compatto di cardinali “bergogliani”. Al contrario: l’impressione prevalente, tra le congregazioni generali che precedono l’ingresso nella Cappella Sistina, è quella di una frammentazione tanto ampia quanto sorprendente, proprio all’interno della cosiddetta maggioranza del Papa uscente.
Un paradosso solo apparente, in realtà. Perché è vero che oltre 100 dei 133 cardinali elettori sono stati nominati da Francesco nel corso dei dieci concistori indetti durante i suoi dodici anni di pontificato. Ma pensare che questa larga fascia possa votare come un blocco unico è un’illusione. Succede spesso, in effetti. Nel 2013, per esempio, sembrava quasi inevitabile l’elezione di Angelo Scola, arcivescovo di Milano, considerato il candidato naturale della linea ratzingeriana. Poi, all’improvviso, emerse Jorge Mario Bergoglio.
Oggi la storia sembra ripetersi, ma a parti invertite. Dopo anni in cui si dava per scontato che un conclave dominato da cardinali nominati da Francesco avrebbe prodotto una figura di continuità, ci si trova invece davanti a uno scenario opposto. Non c’è unanimità. Non c’è nemmeno un vero “fronte bergogliano”. C’è una galassia di piccoli gruppi, cordate, simpatizzanti di singole candidature. Grappoli di cinque, sette, dieci voti che si muovono in ordine sparso, spesso convinti di custodire al meglio l’eredità di Francesco, salvo poi finire per contraddirla.
È il Conclave dell’“uno vale uno”, dove pochi nomi spiccano davvero e le aspirazioni personali si moltiplicano. C’è chi coltiva ambizioni silenziose e chi tesse alleanze dietro le quinte. Nessuno, almeno finora, sembra in grado di catalizzare i consensi necessari per emergere. Ma la lentezza, in questo caso, non è indice di stallo. Al contrario, segnala una discussione autentica, un confronto vero. Non a caso, qualcuno ha definito questo Conclave “al buio”, usando una formula tipica delle crisi di governo nei sistemi parlamentari.
Nel mosaico delle correnti, si distinguono almeno cinque gruppi composti da cardinali vicini al magistero di Francesco, che però si guardano in cagnesco. Le fratture attraversano gli episcopati nazionali: gli italiani, tradizionalmente disorganizzati, non fanno eccezione, ma la sorpresa è che anche i nordamericani – sconcertati dopo le provocazioni carnevalesche di Trump travestito da pontefice – si presentano divisi e incerti. I latinoamericani, che nel 2013 furono decisivi, oggi sono marginali. I tedeschi, dilaniati dalla polarizzazione tra ultra-progressisti e conservatori, appaiono deboli e demoralizzati.
Meno marcate, ma più nette sul piano dottrinale, le divisioni tra i cardinali dell’Europa orientale. Un gruppo compatto, sì, ma su una linea rigidamente ortodossa e ostinatamente antibergogliana. Il problema è che non hanno ancora trovato un candidato plausibile. La critica al pontificato di Francesco è trasversale, ma nessuno è riuscito a incanalarla in un’alternativa concreta.
Un indizio importante dello scenario attuale è l’ipotesi, sempre più citata nelle conversazioni tra porporati, di affiancare al futuro Papa un vero “Consiglio dei cardinali” con poteri reali. L’idea è chiara: evitare che il prossimo pontefice concentri su di sé tutto il potere. È il segno di una Chiesa che riflette sulle fragilità della propria struttura di governo e cerca di evitare che un “Papa re”, solo al comando, diventi l’unica opzione possibile.
Il desiderio di equilibrio è forte. La maggioranza dei cardinali – anche quelli che non si riconoscono pienamente in Francesco – non vuole un Papa onnipotente, ma nemmeno una figura simbolica, svuotata di autorità. L’eredità di Bergoglio pesa: non per essere replicata, ma per essere superata con intelligenza. Il prossimo Papa dovrà essere post-Bergoglio, non anti. E la sintesi invocata da molti è quella tra Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco: un pontefice capace di andare oltre le contrapposizioni e ricomporre le fratture.
Ci vorrà tempo. Anche perché ci sono troppi aspiranti non solo al Soglio di Pietro, ma anche alla Segreteria di Stato. Dopo anni in cui il “primo ministro” del Vaticano ha avuto un ruolo defilato, la figura del Segretario di Stato torna a essere centrale. Non è un caso che Pietro Parolin sia tra i nomi più menzionati. A differenza del passato, quando né Sodano né Bertone vennero considerati papabili, oggi Parolin è visto come una figura in grado di offrire continuità istituzionale e di ricostruire il governo di una Chiesa smarrita.
Il Conclave che si apre oggi non è un plebiscito né una resa dei conti, ma una faticosa ricerca di sintesi. Perché l’unità della Chiesa, oggi più che mai, non si può improvvisare. E nemmeno delegare a un solo uomo.