
Ci sono sogni che sembrano più veri della realtà. Sogni che nascono nel cuore e si fanno strada, anche mentre la Storia è ancora in corso. È successo anche a me, in questi giorni sospesi, mentre le porte della Cappella Sistina si sono chiuse dietro ai cardinali riuniti in conclave. Ho sognato un Papa nuovo. Non sapevo il suo nome, ma sentivo forte chi era per me: un uomo capace di ascoltare, accogliere, camminare con gli ultimi.
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Non era solo un pontefice. Era un volto, una voce, un abbraccio. Era il segno di una Chiesa che ha finalmente imparato a sorridere, anche nelle pieghe più dure del mondo.
Negli ultimi anni, abbiamo assistito a uno sforzo immenso per rendere la Chiesa meno giudicante e più misericordiosa. Papa Francesco ha aperto varchi, indicato direzioni, avviato processi. Ma tanto è ancora da fare. Nel sogno che ho fatto, il nuovo Papa non alzava muri, non parlava il linguaggio del potere: stava in silenzio con chi soffre, apriva porte, prendeva in braccio i bambini, accoglieva lo straniero senza domande.
Era il Papa della “Chiesa in uscita”, ma anche quello di una Chiesa che torna a casa, tra le sue periferie, tra i suoi dimenticati.

Solo dopo ho riconosciuto in quel volto, in quel modo di parlare, qualcuno che già conosco. Uno che oggi non ha ancora il pallio sulle spalle, ma ha già addosso il peso delle lacrime del mondo. Il cardinale Luis Antonio Tagle. Filippino, figlio di due continenti, profondamente credente e profondamente umano.
Tagle sorride, ma non è mai superficiale. Parla dei poveri e non lo fa con linguaggio clericale. Quando racconta l’infanzia nei quartieri di Manila, non si commuove per retorica, ma perché sa cosa vuol dire vivere senza niente. Sa che il Vangelo non si impone: si vive, si condivide, si piange e si ride insieme.
La sua elezione sarebbe, per me, un segno potente. La prova che la Chiesa ha deciso di non tornare indietro, ma di spingere in avanti i sogni del Concilio e del Vangelo vissuto per strada. Non per ideologia, ma per fedeltà. Per amore. Sarebbe la risposta a chi cerca un pastore più che un principe, un fratello più che un’autorità.
Non so se sarà lui. Ma so che questo è il Papa che vorrei: non solo per me, ma per milioni di volti invisibili che aspettano ancora di essere guardati negli occhi.
Nel sogno, il nuovo Papa parlava dalla loggia. Ma non era a San Pietro. Era a Gerusalemme, e pronunciava parole semplici, come chi sa che il mondo ha più bisogno di speranza che di teologia. Intanto, dal televisore acceso in sottofondo, una voce raccontava le solite previsioni sui “papabili”, citando anche lui, Tagle, il filippino dal sorriso limpido.
Poi mi sono svegliato. Era ancora maggio 2025. Il conclave non ha ancora scelto. Le fumate sono nere. Ma quel sogno è rimasto. Vivo, chiaro, necessario. E anche se sarà un altro a vestire di bianco, spero che gli assomigli.