
Città del Vaticano – Non c’è bisogno di documenti per scrivere certe storie. Basta ascoltare le pause, guardare gli incastri, rileggere gli ultimi anni con lo sguardo di chi cerca un disegno nascosto. Quando Papa Francesco, nel 2023, chiamò a Roma Robert Francis Prevost per affidargli il Dicastero per i Vescovi, la notizia colse tutti di sorpresa. Prevost era quasi uno sconosciuto per molti in Curia: agostiniano, missionario, silenzioso, fuori dai radar. Non era tra i cardinali che riempivano le cronache vaticane. Eppure, da quel momento, cominciò a camminare silenziosamente nel cuore della macchina ecclesiale.
Lo aveva scelto Francesco in persona, e non fu una nomina qualunque. Il Dicastero per i Vescovi è la stanza dove si decide il volto della Chiesa di domani, diocesi dopo diocesi. Portare lì Prevost era più di un segnale: era un’investitura discreta, un modo per dire “questo è un uomo di cui mi fido”, senza doverlo dire. E Francesco, si sa, non ha mai amato i proclami. Ha sempre preferito far capire piuttosto che dichiarare, suggerire piuttosto che indicare.
Chi conosce Prevost racconta di un uomo senza ambizioni visibili. Ma anche di uno straordinariamente allineato alla visione di Francesco: attento ai margini, schivo, lontano dalle logiche di potere. E soprattutto con una biografia che lo rende più sudamericano che americano: vent’anni trascorsi in Perù, in contatto diretto con le comunità locali, tra povertà e fede vissuta sulla pelle. Un’esperienza che lo ha reso profondamente bergogliano, ben prima di varcare i cancelli del Vaticano.
Eppure, durante le giornate del conclave, Prevost sembrava nascondersi. Le sue parole, sempre poche, non cercavano consenso. Nessun gesto da candidato, nessun giro di consultazioni. Era lì, ma come se volesse non farsi vedere. Non per timidezza, ma per cautela. Come se un progetto già tracciato dovesse restare protetto, come se anche solo apparire troppo potesse comprometterne la riuscita. E infatti, nei giorni delle Congregazioni generali, nessuno faceva il suo nome. E forse proprio per questo era il nome giusto.
Quando, al quarto scrutinio, è stato eletto Leone XIV, la sorpresa è stata relativa. Non perché lo si aspettasse — anzi — ma perché immediatamente tutto ha cominciato ad avere senso. La traiettoria, le parole, le scelte precedenti. E anche il nome scelto, Leone, ha rivelato molto: un omaggio evidente a Leone XIII, il papa della Rerum Novarum, il fondatore della dottrina sociale della Chiesa, riferimento costante di Francesco. Ma anche una dichiarazione implicita di continuità, quasi un’eredita raccolta senza proclami, come nello stile di entrambi.
E poi, c’è il modo in cui parla, il tono delle sue prime parole da pontefice, la scelta di dire “pace disarmata, disarmante”, in perfetta sintonia con i dieci anni precedenti. Non una rottura, non una discontinuità. Semmai, il compimento naturale di un percorso. E per chi osserva da vicino, Leone XIV non è semplicemente “in linea” con il pontificato di Francesco: è la sua prosecuzione consapevole, come se fosse stato scelto da lui senza mai nominarlo.
Un papa americano, sì. Ma un americano atipico: lontano anni luce dal nazionalismo religioso, dalle retoriche conservatrici, fortemente critico verso l’approccio di Donald Trump sull’immigrazione e sull’identità. Leone XIV non incarna l’America dei confini chiusi, ma quella dei missionari e delle comunità miste, dei poveri e dei migranti, dei ponti anziché dei muri.
Così, oggi, tra chi conosce i meccanismi più riservati del Vaticano, una voce circola sommessamente: Francesco non ha mai fatto il suo nome, perché non ha mai avuto bisogno di farlo. Lo aveva già messo nella posizione giusta, lo aveva protetto dal rumore, lo aveva forse persino aiutato a restare invisibile fino al momento opportuno.
Ora che il momento è arrivato, il disegno si vede tutto intero. E anche se nessun documento lo confermerà mai, il nuovo papa sembra proprio la scelta di un altro papa. Solo che quel papa, come spesso ha fatto, ha preferito non lasciare tracce. Solo orme leggere nella polvere della storia.