
Città del Vaticano – Se ne parlava già nelle ore prima della chiusura delle porte. I cardinali più esperti avevano percepito una convergenza che si muoveva sotto traccia, senza clamore ma con costanza. E infatti, il nuovo Papa è arrivato al quarto scrutinio, con una rapidità che ha spiazzato anche chi conosce bene i meccanismi della Cappella Sistina. Un dato è certo: non è stata un’elezione per acclamazione, ma per sottrazione. Uno a uno, i candidati più esposti sono stati scartati. Quello che restava – Robert Francis Prevost – ha cominciato a crescere. Silenziosamente.
Secondo più di una fonte, già alla seconda votazione la sua ascesa era diventata evidente. Non clamorosa, ma costante. Il cardinale americano, prefetto del Dicastero per i Vescovi, era stato poco nominato nei giorni delle congregazioni generali. Proprio per questo ha beneficiato di una dinamica antica e collaudata: l’elezione del profilo sobrio, di chi non fa paura a nessuno e parla con tutti. Il cosiddetto “candidato ponte”.
Parolin si è fermato, ma non è crollato

A mezzogiorno si diceva che Parolin avesse 49 voti e Prevost 38: numeri da prendere con le molle perché anche se fossero quasi veri, voleva dire che lì due candidati insistevano su due terzi dei voti, mentre un terzo secco di porporati preferiva altri. Poi, stando alle prime ricostruzioni emerse, la svolta: nel pomeriggio, come nel 2013, i voti si sono spostati sul porporato americano superando la cifra di 89.
Voti «ceduti» da chi sosteneva Parolin? Voti sopraggiunti da chi aveva sperato un cardinale ancora più decisamente bergogliano o preso in un chissà dove ancora più remoto di Buenos Aires? Tutte ipotesi possibili e che fanno pensare che l’italiano potesse essere addirittura in vantaggio inizialmente. Quel che è certo è che la insistenza e i modi con cui s’è cercato di dipingere l’esigenza di un ribaltone antibergogliano, ha finito per bruciare chi poteva interpretarlo e ha detto che la barca di Pietro in navigazione nel tempestoso mare della storia deve continuare a navigare.
Lavoro invisibile: il patto non scritto tra Usa, Perù e Germania
Dietro il risultato, raccontano fonti vicine ad alcuni cardinali europei, ci sarebbe stato un lavoro diplomatico tanto paziente quanto discreto. Da giorni si muovevano tre figure chiave: Cupich, arcivescovo di Chicago e volto dei bergogliani USA; Carlos Gustavo Castillo Mattasoglio, arcivescovo di Lima; e Reinhard Marx, il tedesco che aveva dialogato a lungo con Prevost ai tempi delle tensioni sul cammino sinodale. Non un asse dichiarato, ma una rete silenziosa. Obiettivo: un papa in grado di non far implodere il post-Bergoglio, ma nemmeno di sterilizzarlo.

Nei corridoi, si mormora che almeno due cardinali italiani – non tra i più noti – abbiano suggerito di convergere su Prevost già la mattina del secondo giorno. Non per entusiasmo, ma per realismo: “È l’unico che tiene insieme Marx e Müeller”, avrebbe detto uno di loro. Un paradosso apparente, ma efficace.
Un consenso non ideologico, costruito sulla fiducia
Prevost ha convinto soprattutto per la sua assenza di rigidità ideologica. Non appartiene a nessuna cordata: americano, sì, ma profondamente latinoamericano per formazione e spirito. Ha vissuto in Perù per vent’anni, lontano dai palazzi. Ha fatto parte delle assemblee sinodali del 2023 e 2024, dove si è guadagnato una reputazione di ascoltatore autentico. Più di uno dei cardinali coinvolti nei lavori ha raccontato di averlo visto “prendere appunti mentre tutti parlavano, e non parlare quasi mai”.
Ha influito anche la stima reciproca con alcuni porporati italiani, come Paolo Lojudice e Jean-Marc Aveline. Nomi apparentemente minori, ma molto influenti nelle dinamiche del dicastero dei Vescovi. “Non divide, non spaventa, non promette” – avrebbe detto di lui uno dei presenti – “e questo oggi vale più di mille proclami”.
Il rischio di un papa di transizione, ma con potenziale sinodale
La sua elezione è stata letta da alcuni come un segnale di stabilità, forse anche di transizione. Ma c’è chi vede in Leone XIV la possibilità di un’evoluzione più radicale, proprio perché nessuno si aspetta scossoni. Il suo primo discorso – “costruire ponti di pace” – è stato letto in chiave universale, ma anche interna: un richiamo a ricucire, a coinvolgere, a distribuire la responsabilità del governo ecclesiale.
Nel Conclave si è discusso, con più insistenza di quanto trapelato, della possibilità di riformare la figura del Papato, rendendola più collegiale. Un’ipotesi che Prevost non ha mai teorizzato pubblicamente, ma che potrebbe ispirare il suo pontificato. “Un papato con più voci, non più debole”, ha detto un cardinale francofono a votazione avvenuta. E in quella formula, forse, c’è già tutto Leone XIV.