Certe presenze non si notano, ma sono ovunque. Nei corridoi degli stadi, dietro le tende degli spogliatoi, nei silenzi prima di una gara e negli abbracci dopo una caduta. Sono quelli che ti guardano quando non hai più niente da dire, e ti restituiscono una possibilità senza chiedere spiegazioni. Sono quelli che non appaiono mai nelle foto, ma se oggi qualcuno può ancora correre, pedalare, suonare, è anche grazie a loro.
Lui stava lì. Sempre un passo indietro. Mai al centro. Aveva un modo tutto suo di entrare nella vita degli altri: senza forzare la porta, come fa chi ha imparato a rispettare il dolore. Non era uno psicologo, né un sacerdote, ma quando parlava, sapeva dove toccare. E quando taceva, faceva ancora più bene. Perché il suo mestiere era fatto di silenzi pieni, e di mani che sapevano ascoltare.

È morto a 64 anni, a Forlì, Fabrizio Borra, fisioterapista tra i più stimati d’Europa, riferimento umano e professionale per generazioni di atleti, attori, musicisti. Era nato a Brescia nel 1961, ma aveva scelto l’Emilia-Romagna come casa, come rifugio, come laboratorio del corpo e dell’anima. Il suo nome, per chi ha calcato i palcoscenici dello sport, è una leggenda sommessa.
Tra le storie più note, quella con Marco Pantani, che curò e accompagnò dopo il terribile incidente alla Milano-Torino del 1996: fu lui a riconsegnare il corpo al Pirata, ma anche a non abbandonarlo quando il ciclismo era finito. Poi vennero i grandi dei motori: Fernando Alonso, Michael Schumacher, Andrea Dovizioso. Nel ciclismo ha seguito Mario Cipollini, Paolo Bettini, Elia Viviani, e più di recente Tadej Pogacar, dopo la caduta alla Liegi-Bastogne-Liegi 2023.
Mani di artigiano, orecchio da amico
Non era solo un fisioterapista. Era una rete di salvataggio. Quando un atleta lo chiamava, spesso non era per un muscolo, ma per ritrovare se stesso. Borra non prometteva mai guarigioni miracolose: lavorava con pazienza, umiltà, tempo. Sapeva che il corpo ha bisogno di verità, non di scorciatoie.
C’era stato anche con Bob McAdoo, leggenda del basket, e con Gianmarco Tamberi, che meno di un anno fa gli aveva dedicato la vittoria agli Europei di Roma. Anche lui, un uomo che sapeva cosa significa cadere e cosa serve per rialzarsi.
Anche lo spettacolo si aggrappava a lui
Ma non c’erano solo atleti. Fabrizio aveva lavorato anche con Roberto Benigni, con Fiorello, con Jovanotti, che a lui aveva dedicato parole di una gratitudine limpida: «È lui l’uomo che mi tiene sul palco». Dopo il grave incidente in bici nella Repubblica Dominicana, Jovanotti si era affidato proprio a Borra, che lo seguì nel recupero passo dopo passo, senza clamore, come sempre.
Per ognuno aveva un modo diverso di esserci. Mai una formula uguale. Mai una cura standard. Perché sapeva che ogni dolore ha la sua storia, e ogni storia merita rispetto.
L’ultimo che spegneva la luce
Molti lo ricordano così: l’ultimo a uscire dalla stanza, con ancora un asciugamano in mano e un pensiero da finire. Non amava parlare di sé. Non c’era una pagina social, non un sito pieno di foto. Solo passaparola, strette di mano, testimonianze vere. Era un artigiano del corpo, ma anche un poeta dell’ascolto. In un mondo dove tutti gridano, lui sussurrava. In un tempo dove tutto corre, lui sapeva fermarsi.
Il suo lavoro non si misurava in record, ma in ricostruzioni invisibili. In quei momenti in cui un campione decide che può ancora provarci. In quelle stanze dove si impara a convivere con una cicatrice.
L’eredità che non si insegna
Oggi, che non c’è più, tanti si accorgono di quanto abbiano contato quei gesti minimi, quelle parole lente, quelle attese pazienti. Perché curare non è aggiustare: è accompagnare. È dire “ci sono” quando nessuno ti vede più. E questo Fabrizio Borra lo faceva con naturalezza, come fosse l’unico modo possibile di essere umani.
Se ne è andato così, senza rumore, come sempre. Ma con lui se ne va una scuola antica di presenza, un’idea di dedizione silenziosa, una forma alta di amicizia.