
Volodymyr Zelensky non è solo il presidente di un Paese in guerra. È, per l’intero continente, l’espressione più netta di una leadership morale che ha saputo coniugare resistenza, visione e senso del momento storico. L’annuncio di oggi — “Incontrerò Putin in Turchia giovedì. Personalmente” — rappresenta l’ennesima conferma di una strategia lucida: non arretrare mai, ma saper offrire la pace senza cedere alla retorica della resa.
Zelensky ha dimostrato, in oltre due anni di guerra, che la forza di una democrazia non si misura nell’assenza di paura, ma nella capacità di agire pur avendo tutto da perdere. Ha tenuto insieme un Paese bombardato, un esercito mobilitato, una popolazione sotto assedio. Ma ha tenuto insieme anche un’Europa che, senza l’Ucraina, avrebbe probabilmente rinunciato a se stessa. Se oggi Bruxelles parla di difesa comune, se l’identità europea ha trovato un nuovo baricentro, lo si deve anche al fatto che Kyiv ha resistito e chiesto di entrare, non di scappare.

Un incontro che non è segno di debolezza
La decisione di accettare un faccia a faccia con Putin non è un segno di debolezza. È, al contrario, una mossa ad alto contenuto politico e simbolico: Zelensky non chiede la pace da una posizione di minorità, ma la pretende da pari, con una condizione chiara — un cessate il fuoco immediato. Non chiede concessioni, non offre territori, non accetta ricatti. Invita l’aggressore a sedersi e a smettere di uccidere, sapendo che l’Ucraina è oggi riconosciuta come interlocutore centrale della geopolitica europea.
In questo, Zelensky ha saputo parlare a più livelli. Alla propria gente, con una comunicazione che è rimasta sempre vicina, diretta, autentica. Ai partner occidentali, con richieste precise, senza mai indulgere in vittimismo ma con la fermezza di chi ricorda che l’Ucraina non combatte solo per sé, ma per l’intero ordine liberale europeo. E infine al nemico, con una determinazione che ha saputo anche sfidare la propaganda russa e romperne la narrazione.

La portata storica del gesto
La portata del gesto di oggi è enorme. Perché riporta la guerra a un luogo civile: una stanza, un tavolo, una parola data. Ma lo fa senza ingenuità, senza pacifismi retorici, senza alcuna illusione su chi abbia infranto per primo il diritto internazionale. Zelensky non dimentica: incontra Putin per difendere l’Ucraina, non per assolvere la Russia. E questa differenza è il cuore della sua forza politica.
Oggi più che mai, Zelensky è la voce storica di una nazione che non ha mai chiesto di essere un simbolo, ma che è diventata il punto più alto dell’idea europea di libertà. Con tutte le sue cicatrici, e con la dignità di chi non ha scelto la guerra, ma ha scelto di non fuggire.
