
Certe immagini pubblicitarie hanno il potere di restare impresse più per lo scandalo che suscitano che per il messaggio che intendono veicolare. È il caso di alcune campagne che, pur con l’intento di attirare l’attenzione, finiscono per oltrepassare un limite sensibile, sollevando riflessioni e proteste trasversali. Quando ciò accade, il dibattito si sposta dal marketing all’etica, fino a toccare le corde della responsabilità sociale e della tutela dei più vulnerabili.
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In un contesto in cui i contenuti si diffondono rapidamente e generano reazioni immediate, anche uno spot pubblicitario può diventare oggetto di indagine, critica e, infine, sanzione. Soprattutto se coinvolge minori e affronta – più o meno intenzionalmente – temi delicati come la sessualizzazione infantile. È quanto accaduto in uno degli spot più discussi degli ultimi mesi, quello realizzato da UPower con protagonista la nota conduttrice Diletta Leotta.
La scena incriminata e le reazioni iniziali
Tutto è iniziato lo scorso marzo, quando uno spot UPower è andato in onda suscitando immediate polemiche. La pubblicità mostrava una scena in cui un bambino di circa 7 anni osservava con espressione stupita una cantante in minigonna mentre si esibiva su un palco. In sottofondo, la voce di Diletta Leotta recitava la frase: “La prima volta che sei rimasto senza parole”.
Il messaggio è apparso a molti ambiguo e fortemente inopportuno, soprattutto per l’associazione tra lo stupore del bambino e il corpo femminile esposto. La giornalista Selvaggia Lucarelli è stata tra le prime a sollevare pubblicamente la questione, accusando la pubblicità di veicolare una sessualizzazione implicita del minore e criticando apertamente la scelta narrativa dello spot.
L’intervento dell’Istituto di autodisciplina pubblicitaria
A distanza di due mesi, è arrivata la decisione ufficiale dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP). Il Comitato di Controllo, dopo aver aperto un procedimento sullo spot, ha deliberato la sospensione immediata della campagna pubblicitaria. In particolare, il Giurì ha ritenuto che il contenuto fosse in violazione dell’articolo 11 del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.
Il passaggio contestato, come riportato nella nota ufficiale e rilanciato dalla stessa Lucarelli nella sua newsletter Vale tutto, riguarda l’ultima parte dell’articolo 11, che stabilisce: “Sono vietate rappresentazioni di comportamenti o di atteggiamenti improntati alla sessualizzazione dei bambini, o dei soggetti che appaiano tali”.

Le parole di Selvaggia Lucarelli e il silenzio della protagonista
Selvaggia Lucarelli, che già a marzo aveva definito lo spot “triste e inaccettabile”, è tornata sulla vicenda sottolineando la necessità di una riflessione seria da parte dell’azienda produttrice e della testimonial Diletta Leotta. Nella sua analisi, la giornalista osserva che anche se la donna sul palco non fosse realmente Leotta, lo spot era chiaramente costruito per farlo credere, e quindi non cambia il significato del messaggio trasmesso.
Alla luce della sospensione, Lucarelli ha scritto: “Forse è arrivato quel momento in cui Diletta Leotta e l’azienda citata (forse) faranno qualche riflessione sull’opportunità di continuare a proporre spot in cui la sessualizzazione della donna (e ora anche di un bambino) sono il fulcro della narrazione. Davvero triste”. Da parte della conduttrice, al momento, non è arrivato alcun commento ufficiale in merito alla vicenda.
Una scelta che riaccende il dibattito sull’etica nella comunicazione
La sospensione dello spot da parte dello IAP rappresenta un segnale forte verso il rispetto dei principi etici nella comunicazione commerciale, in particolare quando si tratta di contenuti potenzialmente dannosi o ambigui. Il caso UPower ha messo in evidenza quanto sia urgente ridefinire i confini della rappresentazione mediatica, soprattutto quando coinvolge i minori o utilizza la provocazione come leva pubblicitaria.
Il dibattito aperto da questa vicenda non riguarda solo un marchio o una testimonial, ma tocca una questione più ampia: quale immagine della donna e dell’infanzia vogliamo trasmettere nei media? E fino a che punto è lecito “giocare” con certe ambiguità, pur di ottenere visibilità?
Nel frattempo, lo spot è stato ritirato, ma il confronto resta aperto. Un confronto necessario, che coinvolge aziende, creativi, consumatori e istituzioni. Perché la pubblicità è anche un riflesso del tempo in cui viviamo, e ogni sua immagine ha il potere – nel bene o nel male – di lasciare un segno.