
New York non ha fatto rumore, domenica. La notizia è arrivata solo ore dopo, quasi in punta di piedi: Robert Benton, uno dei registi e sceneggiatori più importanti del cinema americano del secondo Novecento, è morto nella sua casa di Manhattan. Aveva 92 anni. A confermare la scomparsa è stata Marisa Forzano, storica assistente e manager del cineasta, al New York Times.
Hollywood perde un autore gentile, raffinato, capace di parlare d’amore e abbandono senza mai alzare la voce. Benton aveva firmato “Kramer contro Kramer”, film che nel 1979 riscrisse il linguaggio del dramma familiare, raccontando un padre e un figlio che imparano a conoscersi dopo un divorzio. Una storia intima e rivoluzionaria, interpretata da Dustin Hoffman e Meryl Streep, che gli valse due Oscar, per la miglior regia e la sceneggiatura non originale.

L’anima della New Hollywood
Prima ancora di dirigere, Benton aveva già segnato il cinema come sceneggiatore. Suo, insieme a David Newman, il copione di “Bonnie and Clyde” (1967), pellicola-manifesto della New Hollywood, che Arthur Penn trasformò in un cult visionario e violento. La sceneggiatura, ispirata al gusto europeo per l’antieroismo, era stata inizialmente proposta a Godard e Truffaut. Poi arrivò la svolta americana: Warren Beatty, Faye Dunaway, e un’estetica che avrebbe fatto scuola.
Dalla Texas rurale ai supereroi
Texano di Waxahachie, nato nel 1932, Benton aveva studiato tra la University of Texas e la Columbia University, per poi lavorare a Esquire. Da lì era cominciata la sua carriera nel cinema, firmando soggetti e dialoghi che spaziavano tra i generi: da “Uomini e cobra” (1970) a “Ma papà ti manda sola?” (1972), fino a “Superman” di Richard Donner, di cui fu co-sceneggiatore.
Ma la sua vera voce si affermò alla regia. Esordì nel 1972 con “Cattive compagnie”, western ambientato nella Guerra civile americana, e nel 1977 firmò “L’occhio privato”, noir malinconico prodotto da Robert Altman. Poi arrivò la consacrazione con “Kramer contro Kramer”.

Il lirismo della memoria
Nel 1984 tornò alla sua terra d’origine con “Le stagioni del cuore”, poetico affresco del Texas rurale durante la Grande Depressione, che gli fece conquistare un terzo Oscar per la sceneggiatura originale e l’Orso d’argento a Berlino. Il film, interpretato da Sally Field, aveva la grazia sospesa del grande cinema europeo, con rimandi a Jean Renoir e alla letteratura americana.
Negli anni seguenti, Benton ha continuato a indagare le fragilità: nel thriller “Una lama nel buio”, nella commedia “Nadine”, nel gangster movie “Billy Bathgate”, ma soprattutto nei suoi ritratti maturi con Paul Newman, da “La vita a modo mio” a “Twilight”.
Un cinema silenzioso, necessario
Con Benton se ne va una voce appartata, ma decisiva, che non ha mai inseguito le mode. Ha raccontato l’infanzia perduta, l’amore infranto, la memoria contadina e urbana degli Stati Uniti. E lo ha fatto senza retorica, ma con uno sguardo umano e commosso. Come se ogni film fosse un gesto d’ascolto, un modo per chiedere scusa o restare vicino. Anche quando la distanza sembrava incolmabile.