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Caso Garlasco, il blitz che riapre tutto senza aprire nulla

Pubblicato: 14/05/2025 16:16

Diciotto anni dopo il delitto di Chiara Poggi, la casa della famiglia Sempio viene perquisita all’alba. In parallelo, uomini dell’Arma e tecnici scavano nel letto di un canale, tra fango e detriti, alla ricerca di un attizzatoio che qualcuno dice di aver visto gettare lì dodici anni fa. È l’ultimo capitolo del caso Garlasco, ma più che un nuovo inizio sembra il ritorno rituale di un’ossessione. Perché nel merito, ciò che sta accadendo non ha alcun senso logico né giudiziario.

La Procura di Pavia ha disposto un blitz nei confronti di Andrea Sempio, già finito anni fa al centro di un tentativo – poi abortito – di revisione del processo. A essere perquisite sono state la sua abitazione, quella dei genitori e quelle di due conoscenti. Sequestrati telefoni, dispositivi elettronici e documentazione. Un’azione estesa, formalmente fondata su un decreto di perquisizione. Ma l’impressione, netta, è che si tratti di un’operazione simbolica, più che investigativa.

Una pista vecchia, fragile, già scartata

Il nome di Sempio era stato avanzato anni fa dai consulenti della difesa di Alberto Stasi, l’unico condannato per il delitto con sentenza definitiva. Si trattava di un’ipotesi costruita su presunti accessi informatici e una frequentazione marginale con la vittima. Ipotesi valutate, archiviate, e mai riconosciute come elementi nuovi e decisivi. Ora, a giustificare il ritorno in scena del suo nome, ci sarebbe una dichiarazione raccolta recentemente: un testimone afferma che nel 2013 – sei anni dopo il delitto – avrebbe sentito Sempio fare un riferimento indiretto a un oggetto gettato in un canale.

Una frase, una memoria incerta, una circostanza comunque posteriore e mai riscontrata. Su questa base si torna a scavare, nella speranza che riemerga l’arma del delitto. Ma la stessa famiglia Poggi, che pure ha sostenuto con forza la colpevolezza di Stasi, smentisce l’ipotesi: “L’attizzatoio di casa è sempre stato lì. L’unico oggetto mancante è un martello”, ha dichiarato la madre di Chiara. Una discrepanza che dovrebbe bastare a smontare l’intero impianto dell’operazione, se non altro per la sua incoerenza materiale.

Giustizia o spettacolo?

Tutto questo accade mentre Alberto Stasi sta scontando la sua pena nel carcere di Bollate, condannato a sedici anni in via definitiva per omicidio volontario. Una sentenza confermata dalla Cassazione, alla fine di un processo lungo, sofferto, passato attraverso due assoluzioni, un annullamento, nuove perizie e infine un verdetto. Giusto o sbagliato, quello è il punto di equilibrio raggiunto dalla giustizia italiana. E se non si vogliono scardinare i fondamenti dello Stato di diritto, quel punto non può essere rimosso senza fatti radicalmente nuovi.

Perquisire oggi, sulla base di una memoria labile e di un oggetto che forse non è mai mancato, significa trasformare l’inchiesta in un’operazione di comunicazione. Significa – di fatto – inseguire l’eco mediatica di un caso senza prospettive di soluzione ulteriore. È un modello che si ripete: cold case mai risolti o già risolti che vengono ritirati fuori con gesti investigativi teatrali, destinati a non produrre nulla ma a risvegliare emozioni, sospetti, visibilità.

La pericolosa fragilità del giudicato

Dal punto di vista giuridico, c’è di più. Il blitz riaccende una questione seria e sempre più attuale: quanto vale oggi una sentenza definitiva? In Italia, la parola “verità” viene spesso affiancata a formule come “verità processuale”, “verità formale”, “verità provvisoria”. Ma una condanna emessa dopo un regolare processo, a sua volta preceduto da assoluzioni e riesami, non può essere trattata come un’opinione temporanea. Il giudicato penale ha un valore fondativo per l’ordine democratico: è la conclusione di un percorso, non un pretesto per nuove narrazioni.

Riaprire le indagini senza basi oggettive – come una prova materiale, un DNA mai esaminato, una confessione – non è un atto di giustizia. Non rafforza la verità: la dissolve nel sospetto. E, paradossalmente, non aiuta nemmeno le vittime. Perché chi ha perduto una figlia, come i genitori di Chiara, ha bisogno di certezze, non di storie parallele che ogni cinque o dieci anni rimettono tutto in discussione.

Chiara, la vittima dimenticata

L’aspetto più grave di questa deriva è proprio la rimozione della vittima. Chiara Poggi non è più il cuore del caso: è diventata una figura evocata, un’assenza che legittima ogni ritorno di fiamma. Ogni nuova ipotesi serve a riattivare il circolo mediatico, non a fare luce sulla sua morte. E più si scava nel fango reale e simbolico, più il suo nome si allontana da ciò che dovrebbe rappresentare: una richiesta di giustizia compiuta, non un pretesto infinito.

In conclusione, ciò che è avvenuto oggi non è una svolta. Non è nemmeno una vera notizia giudiziaria. È una mossa simbolica, fondata su suggestioni deboli, incapace di reggere a un vaglio probatorio serio. E se davvero dovesse produrre conseguenze giudiziarie, sarebbe un segnale inquietante: che nessuna verità è mai al sicuro, che ogni condanna è rinegoziabile, che la giustizia è solo una delle versioni possibili.

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