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È morto Nino Benvenuti, campione gentiluomo che fece dell’Italia un pugno di gloria

Pubblicato: 20/05/2025 16:09

Aveva 87 anni e un volto che sembrava scolpito dal tempo e dal ring, quello stesso ring su cui aveva costruito la sua leggenda. Nino Benvenuti si è spento a Roma, dopo una lunga malattia, circondato dall’affetto dei figli. Con lui se ne va non solo un simbolo dello sport italiano, ma anche un pezzo di immaginario collettivo, un’epoca in cui il pugilato era poesia, disciplina e battaglia, e in cui l’Italia guardava i guantoni con il fiato sospeso, come se lì dentro si giocasse qualcosa di più del semplice titolo mondiale.

Dall’Istria all’Italia: una storia di fuga e talento

Era nato Giovanni Benvenuti il 26 aprile del 1938 a Isola d’Istria, oggi in Slovenia, allora territorio italiano. La sua famiglia fu costretta a lasciare la casa dopo la guerra, come tanti esuli istriani. Una ferita identitaria che Nino non avrebbe mai dimenticato, e che portò sempre dentro di sé come una radice tagliata. Ma da quella sradicazione, da quella infanzia segnata dall’esilio, nacque anche la sua forza: quella determinazione incrollabile che lo avrebbe condotto, un giorno, a essere il più grande pugile italiano del dopoguerra.

L’oro olimpico di Roma, tra tecnica e bellezza

Il suo primo trionfo mondiale arrivò con l’oro alle Olimpiadi di Roma del 1960, nella categoria pesi welter. Ma non fu solo una medaglia: fu un’opera d’arte sul ring, un’esibizione di eleganza e intelligenza tattica. Benvenuti non era un pugile brutale: era un artista del jab, uno stratega in movimento. Incarnava un’idea alta della boxe, fatta di rispetto, di misura, di estetica del colpo. Lo chiamavano “il gentiluomo del ring”, e non era un soprannome di maniera: Benvenuti combatteva con la testa, con il cuore e con una compostezza da schermidore.

Il duello con Griffith, la cintura iridata e l’Italia in piedi davanti alla tv

Ma il momento che lo consacrò nell’Olimpo della boxe arrivò il 17 aprile 1967 al Madison Square Garden di New York. Davanti a un pubblico estasiato, batté Emile Griffith ai punti e si prese il titolo mondiale dei pesi medi. Fu un evento nazionale: milioni di italiani incollati alla radio o alla televisione, in una notte che sembrava un romanzo popolare. Griffith, l’americano amato anche dagli intellettuali, non era un avversario qualunque. Ma Benvenuti lo affrontò con coraggio e rigore, ribaltando i pronostici.

Perso il titolo nella rivincita pochi mesi dopo, lo riconquistò nel 1968, tornando campione del mondo per la seconda volta. La trilogia con Griffith divenne leggenda, racconto da tramandare: tre match epici, esempio di sportività e rivalità vera. Ancora oggi è considerata una delle più grandi sfide della storia della boxe.

L’epilogo con Monzón e la fine del mito agonistico

Benvenuti combatté fino al 1971, quando salì sul ring per l’ultima volta contro l’argentino Carlos Monzón, il pugile che gli avrebbe strappato la cintura e infranto il sogno del finale perfetto. Perse due volte, e alla seconda sconfitta, a Montecarlo, annunciò il ritiro. Lo fece a modo suo, con dignità, senza drammi. Disse che il corpo non rispondeva più come una volta, e che era tempo di smettere. Aveva 33 anni.

Da eroe sportivo a volto della televisione

Finita la carriera da pugile, Benvenuti divenne un volto popolare della televisione italiana. Commentatore, ospite, personaggio pubblico, ma sempre con quell’aura discreta da uomo che aveva visto il mondo senza mai montarsi la testa. È stato dirigente sportivo, imprenditore, anche un po’ attore. Ma soprattutto è stato testimone vivente di un’Italia che credeva nel riscatto attraverso la disciplina, la fatica e il talento.

Negli ultimi anni si era ritirato dalla scena, indebolito dalla malattia, ma non aveva mai smesso di parlare di boxe e dei suoi valori. Amava ripetere: “Il pugilato ti insegna il rispetto dell’altro, anche mentre lo combatti”.

Una vita piena di ombre e luci

Dietro l’immagine del campione, Benvenuti ha conosciuto anche dolori profondi. Il dramma della figlia Silvia, scomparsa tragicamente, l’aveva segnato per sempre. Ma non si era mai arreso. “Ho imparato a incassare i colpi”, diceva, e non solo sul ring. Era il suo modo di affrontare la vita: con una sobrietà eroica, senza lamentarsi, senza piangersi addosso.

L’eredità di un uomo d’altri tempi

Nino Benvenuti è stato più di un campione. È stato un simbolo nazionale, un ponte tra generazioni, un uomo che ha incarnato l’idea che il successo può convivere con l’onore, che la vittoria non è mai disgiunta dallo stile. In un mondo che spesso confonde l’urlo con il coraggio, la sua misura è stata una lezione per tutti.

Oggi, mentre l’Italia lo saluta, resta l’immagine di un uomo in accappatoio bianco, le mani fasciate, lo sguardo fiero. Resta il rumore ovattato dei colpi sul ring, il silenzio di chi sa attendere l’attimo giusto, il gesto antico del pugile che saluta il pubblico con un cenno, anche dopo una sconfitta.

E resta una frase che disse tempo fa, quasi a voler lasciare un testamento:
“Non si vince per caso. Si vince se hai rispetto, per te stesso e per chi ti guarda.”

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Ultimo Aggiornamento: 20/05/2025 16:12

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