
La telefonata doveva essere il momento della verità. Un passaggio chiave nel confronto tra la presidenza Trump e la linea dura del Cremlino. Era stata annunciata come un’occasione per pretendere da Putin passi concreti verso una tregua, un cessate il fuoco, una de-escalation minima. Invece è stato un siparietto tra due vecchi conoscenti, condito da confidenze personali, battute familiari e soprattutto da un silenzio assordante. Quello del presidente americano di fronte alle pretese di Mosca. Trump non ha detto nulla. E quel nulla, in diplomazia, pesa quanto una bandiera bianca.
A parlare, alla fine, è stato Putin. È stato lui a raccontare il contenuto della lunga conversazione, durata oltre due ore, avvenuta mentre si trovava nella scuola musicale del centro Sirius a Sochi. Trump era a Washington. Il tono è stato definito «franco, sincero, costruttivo». In realtà è stato un colloquio sbilanciato, in cui il presidente americano ha accettato senza fiatare l’idea di un memorandum generico, condizionato a “possibili futuri accordi” che non hanno né forma né scadenza. Nessun impegno, nessuna pressione su Mosca. Solo parole caute, volutamente vaghe. E la promessa, da parte di Trump, di farsi da parte. Di lasciare che Russia e Ucraina trattino da sole, senza più l’intermediazione americana. Una scelta che equivale a tirarsi indietro, a rinunciare al ruolo di garante e, implicitamente, a legittimare il diktat russo.
Non c’è stata alcuna reazione alle parole di Putin, che ha ribadito le sue richieste massimaliste e il rifiuto di ogni cessate il fuoco prima di aver ottenuto garanzie sul lungo termine. Non c’è stato un avvertimento, una sanzione, un’ombra di fermezza. Trump, che aveva promesso di fermare la guerra in 24 ore, si è limitato a congratulazioni familiari e a un entusiasmo fuori luogo. Sul suo social Truth, ha scritto che la telefonata è andata “molto bene” e che i negoziati, per la fine della guerra, “inizieranno immediatamente”. Ma Mosca ha smentito: nessuna data, nessuna tregua in vista, nessun incontro programmato. Solo il vecchio copione: rinvii, ambiguità, propaganda.
Quello che è successo — o meglio, quello che non è successo — è un segnale pericoloso. Trump ha rinunciato pubblicamente a guidare il processo negoziale. Ha lasciato intendere che Washington non ha più intenzione di dettare linee rosse. Ha accettato che i termini della pace vengano scritti da chi tiene il coltello dalla parte del manico. E ha raccontato tutto questo con il tono di chi annuncia un successo. “Credo a Putin. Vuole davvero la pace”, ha detto ai cronisti nel Giardino delle Rose. Poi ha raccontato che il leader russo avrebbe espresso “molto rispetto per Melania”, concludendo tra le risate di chi assisteva. L’Ucraina brucia, ma Trump ride.
Kiev, invece, tace. Ma dietro il silenzio si avverte lo sconcerto, se non la rabbia. Perché da questa telefonata è emerso in modo chiaro un fatto: Putin non cambia rotta, e Trump non intende opporsi. Al contrario, sembra pronto ad assecondarlo, ad assorbirne la narrativa, a legittimare le sue richieste. Come già accaduto in passato, l’ostinata ammirazione per l’uomo forte del Cremlino ha di nuovo prevalso su ogni principio geopolitico e morale. Non è un errore tattico, ma una scelta strutturale: Trump si muove sempre più come un garante degli interessi russi.
La retorica della mediazione si trasforma così in copertura, la promessa di pace in resa politica. E mentre il conflitto continua, mentre le città ucraine restano sotto attacco e l’Europa osserva con crescente allarme, la Casa Bianca si scopre senza voce e senza volontà. Il presidente che doveva chiudere la guerra si è piegato al gioco di chi vuole vincerla con le armi.