
Dietro la solita grande porta di legno dello Studio Ovale si sono accesi ieri lampi di tensione: Donald Trump, in occasione del bilaterale con il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, ha trasformato l’incontro in un’autentica imboscata mediatica. Con gesto teatrale, ha proiettato alcune fotografie che – a suo dire – documenterebbero un “genocidio bianco” in Sudafrica, rivolgendosi a Ramaphosa con un tono tra la sfida e l’incredulità: «Vengono uccisi, famiglie intere…», ha detto Trump, «e so che non lo volete».
Un’aggressione verbale di fatto caldeggiata dal consigliere più illustre di Trump: Elon Musk, nato a Pretoria, da tempo denuncia sui suoi canali social presunti attacchi ai coltivatori di origine europea. Ieri il presidente Usa ha portato in scena anche un breve video: volti di contadini neri che discutono di quella che lui ha definito una campagna di terrore, e immagini di improbabili fosse comuni.
Ramaphosa, visibilmente colto di sorpresa, ha risposto in modo composto, smontando punto per punto le accuse. «No, no, no, nessuno può prendere le terre in Sudafrica», ha chiarito, facendo riferimento al Expropriation Act, la legge che consente di espropriare terreni non utilizzati o di interesse pubblico – anche senza indennizzo – ma applicata in un contesto dove il 72% delle terre resta nelle mani della minoranza bianca. Il presidente sudafricano ha quindi spiegato che in realtà il Paese sta attraversando un picco di criminalità diffusa, che non risparmia alcuna comunità, e che le notizie di “esecuzioni mirate” contro i bianchi sono del tutto infondate.
Per stemperare l’atmosfera, Ramaphosa ha infine scherzato sul regalo record del Qatar, un Boeing che diventerà il prossimo Air Force One di Trump: «Mi dispiace, io non ho un aereo da regalarle», ha detto con un sorriso di circostanza. Ma la vera domanda che resta aperta è un’altra: quanto spesso, e con quale vantaggio diplomatico, lo Studio Ovale diventerà palcoscenico di aggressioni premeditate?