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Napoli, la notte che canta: voci e verità di uno scudetto eterno

Pubblicato: 23/05/2025 22:22

C’è una luce che non viene dal cielo, ma dagli occhi. E stanotte quegli occhi sono milioni. Brillano come fari su una costa invisibile, come candele in una processione che non ha meta. È la luce di chi ha creduto quando non c’era più nulla da credere, di chi ha aspettato senza mai smettere di chiamare per nome la speranza. È la luce sporca e sacra di una città che non si è mai difesa dalla gioia, ma ha imparato ad amarla con la stessa intensità con cui ama il dolore.

Napoli è diventata luce. Non una città: un bagliore collettivo, una voce che si leva da ogni balcone, da ogni finestra, da ogni gradino dove un bambino ha sognato di giocare per la maglia azzurra. Oggi quel sogno non si è avverato: si è allargato. Si è fatto coro. Si è fatto pelle. E chi non ce l’ha fatta a vederlo, stasera, è tornato comunque: sotto forma di una fotografia poggiata accanto a un bicchiere, di un nome sussurrato alla folla, di una lacrima che non ha più bisogno di spiegazioni.

È accaduto. Il Napoli ha vinto il suo quarto scudetto. E la città non lo sta festeggiando: lo sta cantando, lo sta respirando, lo sta vivendo come un atto d’amore assoluto, che non si spiega e non si chiede. I fuochi d’artificio non si contano più, ma sono le voci a fare più rumore del cielo. La festa non ha un centro: è ovunque ci sia un cuore che batte per questa squadra.

Una festa scandita da due gol, quelli di McTominay e Lukaku, che hanno permesso di superare anche l’ultimo ostacolo, il Cagliari. L’Inter nel frattempo lontana, a Como, ha fatto il suo. Non è bastato. La paura è durata meno di un’ora, quando è arrivata la seconda rete si è levato l’urlo, liberatorio, di un popolo.

Un signore, con le mani nelle tasche e gli occhi lucidi, guarda la folla e dice piano: «Mo ce sentimmo giusti». Giusti: nel senso di appartenenti, non più esclusi, non più messi da parte. La vittoria qui non è solo sportiva: è ontologica. È una risposta a chi ha sempre detto che non si poteva.

Non si vede più l’asfalto. È tutto un manto di persone, tamburi, bandiere, mani alzate e bottiglie che girano senza proprietà. Ci si abbraccia senza sapere i nomi. Ci si guarda senza dire nulla. Napoli si riconosce nei suoi stessi occhi.

La città che si riconosce nelle sue voci

C’è chi canta con la voce spezzata dal pianto, chi ha portato fuori una radiolina per farla ascoltare anche a chi non vede bene lo schermo, chi urla i nomi dei giocatori come se chiamasse i figli a tavola. Una ragazza grida: «Stasera pure i morti stanno svegli!». E nessuno ride: perché è vero. Stanotte anche chi non c’è più torna, per un attimo, ad ascoltare il rumore che fa la felicità.

Ogni vicolo è un altare improvvisato. Ogni muro scrive poesia con lo spray. Ogni finestra è un palcoscenico. La città si mette in scena da sola, con la sua impudicizia e la sua verità. Le voci si accavallano, come onde che non si danno il cambio ma si abbracciano.

Una donna con un rosario in mano bacia una foto piegata. Parla piano, ma non a sé: «T’avevo promesso che l’avremmo rivisto. E mo guardaci». Piange senza fare scena. Un ragazzo le si avvicina, le offre una birra. Lei sorride, dice solo: «Grazie». Ma quel grazie è più lungo di qualsiasi discorso.

Un altro è salito su un bidone dell’immondizia e predica: «Chest’è ’a notte che c’ha liberato ‘e pensieri cupi». Non lo ascoltano tutti, ma lui continua: «Stammo facenno pace cu nuie stesse». Poi scende, si mischia alla folla, sparisce. Ma la frase resta lì, come un graffito nella testa.

Un motorino gira in tondo, senza meta. Sopra ci sono tre ragazzi e una bandiera legata alla marmitta. Ogni volta che passano, gridano “Forza Napoli” come se dovessero svegliare il mondo. Nessuno li ferma. Nessuno vuole che si fermino.

Da una finestra qualcuno ha acceso delle luci natalizie. Sembrano stelle. Sotto, un vecchio canta Eduardo Bennato, da solo. Poi cambia strofa. E parte un coro: mille, diecimila voci che si prendono quella melodia come se fosse sempre stata loro. La musica non è mai stata così corpo.

Non è solo festa. È riconoscimento. È identità che si fa carne. Napoli, stasera, si è ricordata di sé stessa. Come una donna che si guarda allo specchio dopo anni e dice: “sono ancora bella”. Come un figlio che torna a casa e trova tutto com’era, ma con un senso nuovo.

La notte che vuole restare

In fondo a una stradina, un gruppo di ragazzi ha acceso dei fumogeni blu. Camminano al rallentatore, come dentro un sogno. Il fumo li avvolge. Le loro sagome sembrano fantasmi. Ma sono vivi, più vivi che mai. Uno di loro si gira e dice: «Se chiude ‘o cerchio, fra’». E l’altro: «No. Mo s’apre». E poi ridono. E poi si baciano, con quella naturalezza che solo chi è cresciuto senza potersi permettere di amare liberamente può concedersi.

La notte continua. Non è ancora profonda, ma è già eterna. Non c’è bisogno di sapere che ore sono: il tempo si è rotto, si è dilatato, ha smesso di correre. Napoli lo tiene fermo, lo blocca tra una risata e una lacrima, tra un colpo di clacson e un bacio rubato sotto una bandiera azzurra che si è fatta cielo.

Il Napoli ha vinto. Ma Napoli non ha vinto solo. Ha vinto per tutti i suoi bambini, per tutti i suoi emigranti, per tutti i suoi poeti maledetti, per tutte le sue madri stanche, per i suoi artisti che suonano per strada, per chi non ce l’ha fatta, per chi non ha mai smesso di dire “un giorno”.

La città è diventata una sola voce, e dentro quella voce ci sono tutte le sconfitte che hanno preceduto questa vittoria. Ogni delusione è servita a questo momento. Ogni ferita ora brilla. Come scriveva uno di loro, uno dei poeti veri: le stelle nascono dai buchi nella pelle del mondo.

Stasera, Napoli è piena di stelle. E non vuole che si spengano. Non ancora. Forse non mai.

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Ultimo Aggiornamento: 23/05/2025 22:55

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