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Trump, il mondo e la “sindrome dell’ultima telefonata”: ogni squillo può cambiare tutto

Pubblicato: 26/05/2025 11:20

C’è chi governa secondo una dottrina, chi secondo un’ideologia, chi secondo i sondaggi. E poi c’è Donald Trump, che sembra governare secondo la rubrica del telefono. Ogni telefonata ha il potere di spostare l’asse del mondo: basta che arrivi per ultima. È la “sindrome dell’ultima telefonata”, e vale su tutto: sulla guerra in Ucraina, sul clima, e persino sul commercio internazionale.

Negli ultimi giorni, mentre si susseguivano bombardamenti e dichiarazioni esplosive, Trump ha offerto una sintesi da manuale: “Putin è impazzito, sta lanciando missili e droni contro le città. È una cosa folle, orribile”. Una condanna forte, apparentemente inequivocabile. Ma appena ventiquattr’ore dopo, nuova uscita pubblica, nuovo bersaglio: “Zelensky parla troppo, tutto quello che dice crea problemi. È meglio che si fermi”. E il cerchio si chiude, o meglio: si riapre. Perché c’è sempre un’altra ultima telefonata.

E proprio quando sembrava che il fronte caldo fosse solo quello militare, ecco che squilla un altro telefono: è Ursula von der Leyen. Oggetto della conversazione: i dazi su auto europee. Trump aveva già minacciato di reintrodurli, accusando l’UE di “rubare” l’industria automobilistica americana. Ma dopo il colloquio con la presidente della Commissione — da lei definito “molto buono e costruttivo” — la linea sembrava ammorbidirsi. Alcuni parlano di una “sospensione tecnica”, altri di semplice “raffreddamento”, ma tutti sanno una cosa: fino alla prossima telefonata, niente è sicuro.

La diplomazia secondo Trump non è una linea coerente: è una linea diretta, e possibilmente senza interferenze. Il problema non è che cambi idea: è che non ce l’ha, finché qualcuno non gliela suggerisce, o gliela urla al telefono. O gliela scrive in maiuscolo su Truth Social.

Se Netanyahu chiama per primo, ha ragione Israele. Se poi chiama Mohammed bin Salman, magari “ha le sue ragioni anche lui”. Se infine chiama Putin, beh, forse si può parlare. Se arriva Zelensky, si torna alla guerra giusta. Se chiama Ursula, la guerra commerciale può attendere.

È un mondo liquido, certo. Ma qui siamo all’evaporazione della coerenza. Non è nemmeno questione di cinismo: è che ogni nuova voce cancella la precedente. Come se l’interlocutore precedente fosse stato messo in attesa troppo a lungo. La diplomazia, così, diventa una sequenza di colloqui esclusivi ma temporanei, come in un grande speed date del potere.

Certo, ci sarebbe da ridere se non ci fosse da tremare. Perché questa sindrome dell’ultima telefonata, in un uomo che ha tra le mani la bomba atomica, non è solo una debolezza umana: è una fragilità sistemica. Il futuro dell’Europa, le sorti della NATO, l’equilibrio del Pacifico, dipendono dal caso: se Ursula chiama prima di Xi Jinping, magari salviamo l’auto elettrica. Ma se Xi chiama mezz’ora dopo, chissà.

E il paradosso finale è che non esiste l’ultima parola. Solo l’ultima chiamata. Che dura finché non squilla di nuovo. E allora Trump cambia tono, cambia nemico, cambia strategia. Non perché sia incoerente, ma perché è strutturalmente disponibile a ricominciare da capo. Un eterno aggiornamento, una diplomazia in beta, che non arriva mai alla versione definitiva.

Forse è questa, in fondo, l’unica vera dottrina Trump: non essere mai l’ultimo a parlare, ma sempre il penultimo. Così può sempre smentirsi, correggersi, rilanciarsi. E intanto il mondo resta lì, in attesa, con la musichetta di Mar-a-Lago in sottofondo e il messaggio registrato: “La vostra politica estera è importante per noi. Restate in linea”.

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Ultimo Aggiornamento: 26/05/2025 15:06

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