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Garlasco, il dettaglio che cambia tutto per Stasi: “La verità sul lavandino dei Poggi”

Pubblicato: 27/05/2025 16:21

Il delitto di Garlasco continua a dividere l’opinione pubblica. La morte di Chiara Poggi, avvenuta nell’agosto del 2007, ha lasciato una lunga scia di domande. I processi, le indagini e i verdetti hanno costruito un quadro giudiziario complesso. La sentenza definitiva ha condannato Alberto Stasi a 16 anni.
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Ma la storia non si chiude. Le carte sono ancora aperte. Alcuni passaggi non convincono. In particolare, i rilievi nella casa della vittima. Tra test ufficiali e accertamenti investigativi emergono discrepanze. Dettagli tecnici che riportano in primo piano una possibile verità alternativa.

Nel fascicolo aperto dalla Procura di Pavia, spunta un altro nome: Andrea Sempio. Gli investigatori del Nucleo investigativo di Milano indagano su una nuova pista. L’ipotesi prende corpo attraverso una diversa lettura della scena del crimine.

Il sangue che non c’è

Secondo questa ricostruzione, l’aggressore non si lavò le mani. Sul lavandino e sul dispenser del sapone non ci sarebbero segni di pulizia. Nonostante la sentenza abbia indicato in quelle superfici due prove decisive, i nuovi elementi portano dubbi. Gli investigatori segnalano numerose impronte papillari e Dna misti.

Le impronte di Stasi ci sono, ma non bastano. Secondo i rilievi, il dispenser non venne mai ripulito. Troppi segni sovrapposti. Troppo Dna di altri, compreso quello della madre di Chiara. E poi ci sono quattro capelli neri e lunghi, visibili in una fotografia dei primi sopralluoghi. Nessuno li ha mai repertati. Nessuno li ha mai analizzati.

L’impronta sulla porta

Nel quadro investigativo rientra anche la famigerata impronta 10, trovata sulla parte interna della porta d’ingresso. Un segno lasciato forse nel momento della fuga. Un dettaglio ignorato nel primo processo, ma ora centrale nella nuova ipotesi.

Secondo gli inquirenti, il delitto potrebbe avere più responsabili. Lo scenario si apre a una ricostruzione collettiva. Qualcuno ha agito. Qualcun altro ha aiutato. L’orario è stretto. I minuti a disposizione non bastano per uccidere, ripulire tutto, nascondere prove e tornare a casa.

Il nodo del tempo

Gli atti parlano chiaro. Alberto Stasi avrebbe avuto solo 23 minuti. Secondo l’orario ufficiale, tra le 9.12 e le 9.34. In quel tempo avrebbe compiuto tutto. Ucciso Chiara. Pulito il bagno. Nascosto l’arma. Rimesso in ordine. Coperto ogni traccia. E poi sarebbe tornato a casa in bici. Avrebbe nascosto la bici. Infine si sarebbe seduto al computer.

Ma il lavandino non presenta tracce di sangue. Nessuna. Neanche una goccia. Il sifone risulta pulito. I test del Ris sono negativi su ogni parte: rubinetto, dispenser, lavello. Nessuna prova certa di lavaggio con detergenti o solventi.

Le analisi escludono ogni traccia ematica. Ma gli investigatori si chiedono come si possa ripulire un sifone in così poco tempo. Nessuna traccia di smontaggio. Nessun segno di uso di prodotti chimici. Il mistero si infittisce. La versione ufficiale vacilla.

Il nuovo filone investigativo punta ad approfondire questi elementi. I carabinieri vogliono capire se davvero Stasi avrebbe potuto compiere tutto in quei pochi minuti. I margini sembrano stretti. Le contraddizioni aumentano. La verità giudiziaria potrebbe non coincidere con quella dei fatti.

Il caso resta chiuso in tribunale. Ma aperto nella coscienza collettiva. I dettagli tornano a galla. Le prove ignorate tornano d’attualità. Le domande non trovano risposta. Il nome di Chiara Poggi resta inciso nella cronaca italiana. E ogni nuovo elemento riaccende il bisogno di giustizia.

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