
Una vita spezzata da un gesto impulsivo, forse inconsapevole, ma terribilmente fatale. La Procura dei Minori di Napoli ha chiuso le indagini sulla tragica morte di Chiara Jaconis, la giovane trentenne colpita da una statuetta d’onice lanciata da un balcone nei Quartieri Spagnoli. Il responsabile sarebbe un ragazzino di 13 anni, già noto per episodi simili, ma non imputabile secondo la legge italiana. Nessun processo, nessuna sentenza. Solo una famiglia distrutta e una città che si interroga sulle responsabilità diffuse di una tragedia evitabile.
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Una passeggiata a Napoli diventa tragedia
Era il pomeriggio di domenica 15 settembre quando Chiara, in vacanza a Napoli con il fidanzato, passeggiava lungo via Concordia, nel cuore dei Quartieri Spagnoli, una delle zone più antiche e vitali della città. Una passeggiata come tante, in una giornata ancora calda di fine estate. Poi, il buio. Una statuetta pesante, scolpita in stile egizio, l’ha colpita in testa con forza devastante. Si è accasciata a terra, priva di sensi. Il fidanzato ha chiamato i soccorsi, ha gridato, ha implorato. Ma due giorni dopo, il 17 settembre, Chiara è morta in ospedale.
La sua era una vita in ascesa. Dopo anni di impegno e studio, aveva realizzato il sogno di lavorare nel mondo della moda internazionale. Aveva trovato spazio e riconoscimento a Parigi, nello staff creativo di Prada, dove disegnava il suo futuro. Era tornata in Italia per qualche giorno di pausa, per respirare un po’ di Mediterraneo. Quel giorno, quella passeggiata, è diventata il suo ultimo passo.

Il ragazzino responsabile e l’ombra dell’irresponsabilità
Dalle indagini emerge il profilo disturbato del tredicenne che avrebbe lanciato la statuetta. Gli inquirenti parlano di un adolescente “problematico”, con precedenti comportamenti violenti e pericolosi. Non era la prima volta che lanciava oggetti dal balcone: in passato aveva scagliato cuscini, un tablet, altri soprammobili. Gesti impulsivi, spesso sottovalutati. Ma quella domenica, il ragazzo avrebbe lanciato due statuette per un peso totale di oltre dieci chili.
Un atto che gli inquirenti definiscono “d’impulso”, ma che ha avuto conseguenze irreparabili. Nonostante ciò, la legge italiana stabilisce che un minore di tredici anni non possa essere ritenuto penalmente responsabile. Non sarà processato, non subirà una condanna. Le carte sono ora nelle mani degli avvocati della famiglia Jaconis, ma la strada giudiziaria appare sbarrata sul fronte penale minorile.
Un secondo fascicolo aperto per i genitori
La Procura dei Minori ha trasmesso gli atti alla Procura ordinaria, che ha aperto un secondo fascicolo per valutare le eventuali responsabilità dei genitori. Le ipotesi di reato sono pesanti: omicidio colposo in concorso e mancata sorveglianza. Gli inquirenti intendono stabilire se il comportamento del ragazzo fosse prevedibile, e se i genitori abbiano avuto una condotta negligente.
Ascoltati nel corso delle indagini, i genitori hanno negato ogni responsabilità. Hanno dichiarato di non aver mai visto le statuette in casa, di non essersi accorti di nulla. Ma per gli investigatori, resta da chiarire se esistessero segnali d’allarme ignorati. Il ragazzino viveva in un contesto familiare difficile? Era seguito? C’erano precedenti che avrebbero potuto far immaginare un’escalation?

Nessuna giustizia per Chiara, solo dolore
Il caso di Chiara Jaconis si colloca in un vuoto normativo e sociale che lascia spazio solo al dolore. Una giovane donna, promessa del mondo creativo, è morta in modo assurdo, per mano di un bambino che la legge non può punire. Eppure, dietro questo gesto ci sono responsabilità educative, genitoriali e istituzionali che vanno indagate fino in fondo.
Chiara è diventata il simbolo di una città che troppo spesso convive con l’imprevedibilità violenta del disagio minorile. Di una giustizia che non può sempre restituire equilibrio. E di un Paese in cui l’assenza di controllo familiare può diventare, in certe circostanze, un pericolo pubblico.
Nel cuore dei Quartieri Spagnoli, via Concordia porta ancora il segno di quella tragedia. E mentre i familiari chiedono giustizia, la società si interroga. Perché a tredici anni non si può processare, ma nemmeno si può morire così.