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Strage dell’Heysel 40 anni dopo: “Se non si fosse giocato ci sarebbero stati 1000 morti”

Pubblicato: 29/05/2025 08:43
Strage Heysel 40 anni

Sono passati quarant’anni dalla strage dell’Heysel, ma il dolore e la vergogna restano vivi nella memoria del calcio mondiale. Era il 29 maggio 1985, quando lo stadio Heysel di Bruxelles si trasformò in uno scenario di morte, devastazione e caos. Doveva essere una serata di festa per la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, ma si trasformò nella più grande tragedia del calcio europeo. Quel giorno persero la vita 39 persone, di cui 32 italiane, e si contarono oltre 600 feriti. Il ricordo, oggi, è ancora vivo e “fa ancora male”, come ha dichiarato Michel Platini, uno dei protagonisti di quella partita maledetta.

Una strage che ha cambiato il calcio per sempre

La strage dell’Heysel ha segnato non solo la storia del calcio italiano, ma anche quella del calcio mondiale. Nonostante siano accadute altre tragedie negli stadi — anche con un numero di vittime superiore — nessuna è rimasta così impressa nella memoria collettiva. L’Heysel è diventato simbolo della vergogna: per l’importanza dell’evento, per la brutalità della dinamica, per l’incapacità delle autorità di prevenire e gestire la situazione.

In quella serata del 1985, le immagini televisive fecero il giro del mondo, mostrando la folla in fuga, i feriti trasportati via a braccia, i corpi ammassati contro i muri crollati. Le conseguenze furono immediate: su pressione del governo britannico, la UEFA bandì le squadre inglesi dalle competizioni europee per cinque anni, e Margaret Thatcher adottò misure severissime contro la piaga degli hooligans.

Le responsabilità secondo i protagonisti

Chi c’era, chi ha vissuto quella serata dall’interno, ha ancora ricordi nitidi. Massimo Briaschi, attaccante della Juventus all’epoca e oggi procuratore, racconta con lucidità quel che successe: “Mi ricordo tutto perfettamente come fosse oggi. È un ricordo che resta dentro per sempre. Sapevamo che c’erano problemi, ma la verità dei 39 morti l’abbiamo saputa solo in albergo dopo la partita”.

Secondo Briaschi, le colpe sono chiare: “L’Uefa ha scelto uno stadio inadatto per una finale di Coppa dei Campioni, e gli hooligans sono arrivati ubriachi, violenti, pronti a fare danni. Già la mattina li avevamo visti in città bere casse di birra”. Il disastro si consumò circa un’ora prima dell’inizio della partita, quando centinaia di tifosi del Liverpool cominciarono a spingersi verso il settore Z, occupato da tifosi juventini. Cercarono il “take an end”, ossia la presa della curva avversaria, sfondando le recinzioni e generando una calca mortale. Un muro cedette, e decine di persone morirono schiacciate o calpestate.

Una partita che si è dovuta giocare

Il fischio d’inizio arrivò comunque. Juventus e Liverpool scesero in campo, e la partita si concluse con la vittoria dei bianconeri grazie a un rigore segnato da Platini. Una decisione che, per decenni, ha generato infinite polemiche: come si può giocare una finale dopo una simile tragedia?

La risposta, drammatica e agghiacciante, la dà ancora Briaschi: “Se non si fosse giocato ci sarebbero stati più di mille morti. La situazione era fuori controllo. Giocare era l’unico modo per evitare che gli scontri degenerassero ulteriormente”. Anche il comportamento dei calciatori a fine partita, criticato da molti, fu imposto dalla UEFA: “Ci dissero di andare sotto la curva per non peggiorare la situazione. Non era una festa. Era una strategia per calmare gli animi”.

Platini: “Non ne parlo volentieri”

Tra gli undici in campo quella sera c’era anche Michel Platini, simbolo della Juventus e autore del gol decisivo. Oggi, il suo ricordo è intriso di dolore e silenzio. “Sono brutti ricordi, non ne parlo volentieri. Mi ha fatto davvero male pensare a quelle persone che erano venute per vederci e non sono tornate a casa”.

La memoria dell’Heysel è ancora viva. Non solo tra i sopravvissuti e i parenti delle vittime, ma anche tra chi, quella sera, indossava una maglia, un fischietto, o sedeva sugli spalti. È una ferita collettiva, un buco nero nella storia dello sport europeo. Ogni anno, ogni anniversario, riapre quel dolore. Eppure, dimenticare è impossibile. Perché ricordare, oggi più che mai, serve a evitare che accada di nuovo.

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