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Caso Garlasco, le gemelle Cappa e le troppe verità sul giorno del delitto (e non solo)

Pubblicato: 02/06/2025 08:11

Diciotto anni dopo l’omicidio di Chiara Poggi, tornano a far discutere i nomi delle cugine gemelle, Paola e Stefania Cappa. Emergono vecchie omissioni e nuove domande: martelli scomparsi, dichiarazioni smentite dai tabulati, versioni ritrattate e un’ombra che sfiora anche ambienti influenti.

Il 29 settembre 2008, a inchiesta praticamente chiusa, la madre di Chiara, Rita Preda Poggi, è convocata in caserma. Elenca i nomi di chi frequentava abitualmente la villetta di via Pascoli con la bicicletta: oltre ai cognati Ermanno Cappa e Maria Rosa Poggi, la nipote Stefania (“fino all’acquisto della Smart”) e quattro amici del figlio Marco: Alessandro Biasibetti, Mattia Capra, Roberto Freddi e Andrea Sempio. Nessun altro.

La bici nera, le testimoni ignorate e l’assenza di controlli

La donna specifica che solo la cognata possiede una bici da donna nera con borse laterali posteriori. È quella che la testimone Franca Bermani dice di aver visto il pomeriggio del 13 agosto 2007, fissandola nella memoria per i carabinieri. Quella che Manuela Travain, altra vicina, colloca quattro giorni dopo proprio davanti al cancello. E che già il 19 agosto viene descritta da Maria Rosa ai militari: “marca Relaig” (probabilmente Raleigh), con portaborse fuxia sporchi.

Nessuno pensa di fotografare o sequestrare quella bici. Nessuno convoca le due testimoni per un confronto oculare. Nemmeno quando, anni dopo, emergerà la questione del pedale con tracce di dna che sarà decisivo per la condanna di Alberto Stasi. Il paragone tra bici resta una verifica mai compiuta.

I movimenti sospetti della famiglia Cappa

Nel 2025, quelle negligenze tornano a galla. E tornano con esse le ombre che lambiscono la famiglia Cappa, detentrice — insieme a Chiara — delle chiavi e del codice d’allarme di casa. Anche per questo la Procura di Pavia e i carabinieri di Milano hanno riaperto uno squarcio su quel gruppo ristretto, al cui interno spicca lo zio Ermanno, di cui Chiara conservava cinque numeri di telefono tra cellulare e uffici.

L’attenzione si concentra anche sulle gemelle Paola e Stefania, legatissime a Chiara nei mesi prima della morte. Paola confesserà ai media, prima ancora che agli inquirenti, un tentato suicidio risalente all’11 agosto e una presunta violenza subita da bambina, mai approfondita. Segni sospetti sul suo collo vengono notati dalle volontarie della Croce Garlaschese, ma ignorati. In quei giorni l’attenzione è tutta sul delitto di Chiara e sulla figura di Stasi.

Il ruolo delle gemelle nei piani dei carabinieri

Secondo alcuni messaggi vocali inviati pochi mesi fa da Paola Cappa all’amico Francesco Chiesa Soprani, i carabinieri di Vigevano avrebbero coinvolto le gemelle come agenti provocatrici, con l’obiettivo di “incastrare Alberto”. Stefania si presta a un colloquio registrato in caserma con cimici e microcamere. Curiosamente, però, nella trascrizione ufficiale manca proprio il passaggio più importante.

Durante quel colloquio, Stefania dice: “Secondo me è una rapina andata a male”. Alberto risponde: “Sì, secondo me lì, qualcuno davvero è entrato lì e lei si è spaventata”. Stefania incalza: “Ma alle 9 e mezza?” — orario che verrà accertato solo due anni dopo — e Alberto replica: “Non lo so a che ora, a me non hanno detto niente”.

Versioni contraddittorie e orari sbagliati

Restano dubbi anche sugli spostamenti del giorno del delitto. Ermanno dice di essere uscito “verso le 8.50”, ma il Telepass di Gropello Cairoli lo registra in viaggio verso Milano 16 minuti prima. La moglie afferma di essere uscita alle 9.30, ma il negoziante Gianluca Vignati la vede in paese già prima delle 8.30.

Quanto a Paola, riferisce di aver saputo da una sensitiva che l’assassino “è un uomo adulto con la camicia e non il fidanzato”. Stefania ricorda una telefonata con Chiara a mezzogiorno del 12 agosto: “Ci siamo promesse di vederci il giorno successivo”. Ma anche questo è smentito dai tabulati.

Fotomontaggi, martelli e il fascino delle telecamere

In piena estate 2007 esplode il caos mediatico. Un fotomontaggio ritrae le tre cugine. Spunta Fabrizio Corona, che propone alle gemelle una strada di visibilità e interviste. Il 20 agosto, il muratore Mauro Gnocchi denuncia la sparizione di una mazzetta da un chilo dai locali della Croce Garlaschese, dove Stefania è volontaria. Il giorno dopo, la pm Rosa Muscio dispone le intercettazioni sui telefoni della famiglia Cappa. Ma è troppo tardi: i giorni del delitto sono passati.

Le intercettazioni raccontano un ambiente che si chiude su sé stesso. Il 22 agosto, Ermanno chiama la figlia per dirle che “sta preparando un’intervista dove spiegherà tutto” e che “ha parlato con uno della televisione per la foto, il martello e l’sms”. Stefania telefona alla Croce per sapere “chi ha messo in giro la voce del martello”.

La casa segreta e l’intervento dei politici

Nel frattempo, l’avvocato di famiglia si attiva: recupera il numero di Geppino Lucibello, penalista di peso, e suggerisce a Paola di “stare ad ascoltare Corona”, anche se è passato solo qualche giorno dalla morte di Chiara. La sera stessa, Stefania confessa di voler andare a Tromello, nella casa del fratello Cesare, “perché quella non la conosce nessuno”.

Sarà lì che, in un secondo momento, emergeranno tre oggetti dal canale adiacente: una mazzetta, un’ascia e un attrezzo da camino. Nessuno all’epoca li collega ai Cappa. Nessuno immagina che stiano tentando di coinvolgere politici tramite il padre per bloccare l’indagine.

Un testimone, una bici nera e una ritrattazione

Il 27 settembre, il caso si riaccende. Il testimone Marco Demontis Muschitta rilascia un verbale di cinque ore. Racconta di aver visto Stefania Cappa uscire in bicicletta nera da via Pascoli alle 9.30 del 13 agosto, con un oggetto in mano simile a un “piedistallo da camino color grigio-canna di fucile”.

La sera stessa, però, il testimone ritratterà tutto. E a finire indagato per calunnia sarà lui.

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