
Discreto ma conosciuto, americano ma universale, ha raccolto voti da ogni continente. E ha rinunciato al pranzo sapendo che entro sera sarebbe diventato Papa.
Non è salito al piano di sotto per il pranzo. È rimasto nella sua stanza a Santa Marta, solo, in silenzio. Non per stanchezza, né per digiuno spirituale. Era il giorno dell’elezione, e Robert Francis Prevost, l’uomo che da lì a poco sarebbe stato chiamato Leone XIV, aveva già iniziato a scrivere il suo primo discorso da Papa.
Era giovedì 8 maggio, e dentro la Cappella Sistina stava maturando un consenso che sembrava quasi travolgere ogni riserva. Dalla sera precedente, quando era stato conteggiato il primo scrutinio, la sua figura si era fatta largo, pacata ma decisa, raccogliendo preferenze trasversali e sorprendenti. Alla fine, l’ha detto anche un cardinale belga: “Sapevamo che entro sera avremmo avuto un Papa”.
I primi voti da tutto il mondo, poi il colpo di reni di Tagle
Già nel primo, lungo scrutinio della sera di mercoledì 7 maggio, Prevost era risultato in testa. Dietro di lui, figure di peso come Pietro Parolin e Peter Erdo. Ma il dato sorprendente non era solo il numero, bensì la provenienza dei voti: nessun blocco geografico, nessuna corrente dominante. Solo una progressiva convergenza su un profilo che teneva insieme la fedeltà all’impronta di Francesco e il desiderio, diffuso, di un nuovo equilibrio.
A fare la differenza, nella giornata decisiva di giovedì, è stata la scelta di Louis Antonio Tagle, che ha portato con sé buona parte del voto asiatico. Poi è toccato ai conservatori americani Dolan e Burke, quindi agli africani di Sarah e Ambongo. Una serie di spostamenti improvvisi ma non improvvisati, segnali di un consenso che si stava trasformando in una valanga plebiscitaria.
La rete sinodale e la mossa finale dei “moderati”
Nessuna regia ufficiale, ma molti movimenti informali. A sostenere Prevost c’erano alcuni “king maker” ecclesiastici: il peruviano Castillo Mattasoglio, l’americano Cupich, il gesuita Hollerich, lo scalabriniano Baggio. Tutti uomini da sinodo, con una visione globale e pastorale della Chiesa.
A determinare il risultato, oltre agli orientamenti ideologici, anche due reti concrete: i cardinali del Dicastero dei Vescovi, che con Prevost lavoravano da anni, e quelli che avevano condiviso con lui le due assemblee sinodali del 2023 e 2024. Le riserve, se ci sono state, sono arrivate da due lati: dai curiali europei più rigidi, e dai bergogliani più movimentisti, che cercavano un nome più spiazzante. Ma il vento anti-italiano e anti-curiale già emerso nel 2013 ha continuato a soffiare.
Il più outsider tra gli insider, eletto con una maggioranza schiacciante
Prevost era l’uomo che conosceva la Curia, ma non ne era stato inglobato. Come ha detto il cardinale Nichols, “ha esperienza, ma non troppa”. Forse è proprio per questo che Parolin non ha mai davvero sfondato: troppo identificabile, troppo al centro. Prevost, invece, si è fatto strada come l’outsider possibile, capace di non dividere e di rassicurare, senza sembrare una bandiera di parte.
Al quarto scrutinio, nel primo pomeriggio dell’8 maggio, è arrivata la conferma: quorum ampiamente superato, più di cento voti su 133. “L’ho ringraziato per aver accettato”, ha detto il brasiliano Steiner, spiegando che nessuno voleva davvero essere eletto. Lo hanno votato quasi tutti. I pochi contrari, probabilmente, restano nei ranghi più conservatori dell’Est Europa. Ma un suo fedelissimo, con ironia, lo ha detto meglio: “Non lo ha votato solo chi si è sbagliato”.