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Crollo all’improvviso, strage di bambini: almeno 11 sono morti così, tragedia immensa

Pubblicato: 04/06/2025 08:16

Nel punto esatto in cui la terra ha ceduto, adesso c’è solo un vuoto. Un cratere scuro, fangoso, circondato dal silenzio irreale del dopo. Non ci sono più le voci, i richiami, le risate e i lamenti. Solo il ricordo — umido, vischioso — di un lavoro che non avrebbe dovuto esistere. Siamo nel nord della Nigeria, vicino al villaggio di Yardoka, nello stato di Bauchi, dove undici bambini hanno perso la vita ieri, sepolti dal crollo della fossa nella quale erano impegnati a scavare fango per la produzione artigianale di mattoni. Altri sette sono rimasti feriti, alcuni in condizioni gravi. Avevano tra i quattro e i nove anni.

Lavoravano. Con le mani e con i piedi. I più piccoli si piegavano a raccogliere l’argilla umida da gettare nei contenitori. I più grandi aiutavano a trasportarla. Intorno, nessuna gru, nessun casco, nessuna protezione. Solo bambini e fango. E un tempo scandito non dall’orologio, ma dai secchi pieni, dai carichi trasportati e dai battiti del sole sulla testa. Quando la fossa ha ceduto, nessuno ha avuto il tempo di fuggire. La terra ha inghiottito tutto in pochi secondi, come una bestia che reclama le sue vittime.

Le parole della polizia

A confermare la tragedia è stato Ahmed Wakil, portavoce della polizia locale, che ha parlato di “un collasso improvviso” della cavità. “I bambini stavano scavando sabbia da utilizzare per produrre mattoni. Il terreno ha ceduto e li ha seppelliti. Undici sono morti sul colpo, sette sono stati estratti vivi e trasportati in ospedale”. Nulla è stato detto, finora, su eventuali responsabilità o su chi li avesse mandati lì. Perché nei villaggi come Yardoka, il lavoro minorile è talmente integrato nella quotidianità da diventare invisibile. E la colpa si dissolve nel sistema.

La povertà non è un contesto: è una condanna

Secondo l’Unicef, in Nigeria più di 15 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni sono costretti a lavorare. Non si tratta solo di vendere cibo per strada o aiutare nei campi: migliaia di loro lavorano in condizioni estreme, in attività di costruzione, in miniera, nel traffico di merci. In regioni come il nord del Paese — dove la crisi climatica, il terrorismo e la disoccupazione hanno fatto precipitare la vita quotidiana — i bambini non vanno a scuola: scavano, trasportano, rischiano la vita ogni giorno. Non per il futuro, ma per sopravvivere al presente.

Chi visita quelle terre, spesso resta colpito dalla compostezza con cui i bambini portano sulle spalle i fardelli della miseria. Spesso scalzi, con abiti strappati, percorrono chilometri con taniche d’acqua, sacchi di sabbia, pezzi di legna. L’infanzia si misura in calli, non in giocattoli. E la scuola — ammesso che ci sia — è lontana, mal attrezzata, sporadica. O, peggio, è diventata bersaglio: negli ultimi anni, centinaia di istituti scolastici nel nord della Nigeria sono stati attaccati da gruppi armati. Migliaia di bambini sono stati rapiti e costretti a restare lontani dalle aule.

Bambini senza infanzia

Yardoka non fa eccezione. È un villaggio rurale, senza infrastrutture, dove ogni famiglia ha più bocche da sfamare che mani da proteggere. I bambini diventano forza lavoro non per scelta, ma per necessità. Alcuni vengono ceduti ad artigiani locali in cambio di cibo, altri aiutano direttamente i genitori. In molti casi, lavorano per pochi centesimi al giorno. La fossa crollata non è un’eccezione: è una delle tante, presenti nelle zone rurali, dove si estraggono sabbia e argilla per costruzioni locali. Nessuno ha mai pensato che potesse essere pericolosa. Nessuno ha mai pensato che lì dentro non dovessero esserci bambini.

Ma non si può parlare di fatalità. La morte di undici bambini non è una disgrazia imprevista, è la conseguenza logica e sistemica di un mondo in cui il lavoro minorile è accettato come inevitabile. Dove l’assenza di tutele, di accesso all’istruzione, di sicurezza alimentare, di politiche attive per l’infanzia non sono emergenze, ma condizioni permanenti. E in cui ogni fossa, ogni cava, ogni officina, ogni campo può trasformarsi in una tomba.

Un sistema mondiale di sfruttamento

Non è solo una questione nigeriana. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel mondo 160 milioni di bambini sono vittime del lavoro minorile. La maggior parte in Africa. E spesso, il prodotto del loro sforzo — mattoni, cacao, cobalto, pietre preziose — finisce nei circuiti globali. In altre parole: la nostra economia è complice. La nostra tecnologia, i nostri vestiti, il nostro cioccolato. La tragedia di Yardoka non è un incidente isolato in un mondo lontano, ma una crepa nel pavimento del sistema globale. Dove la povertà produce manodopera, e la manodopera produce profitto.

Eppure, la morte di quei bambini non scuote l’agenda politica. Non produce crisi diplomatiche. Non genera sanzioni, né indignazione globale. Al massimo, un trafiletto. Un breve reportage. Una preghiera. Poi il nulla. Come se la fossa avesse seppellito anche il nostro senso di responsabilità.

I nomi che nessuno dirà

Non conosceremo mai i nomi di quei bambini. Non ci sarà un’inchiesta internazionale. Nessuna copertina. Nessuna commemorazione. Undici corpi piccoli, sotterrati dalla terra e dall’indifferenza. Ma ognuno di loro racconta una storia: di sogni mai iniziati, di infanzie mai vissute, di domande senza risposta. Come quella che rimbalza nel villaggio: perché erano lì dentro? Chi gliel’ha chiesto? E chi avrebbe dovuto impedire che ci andassero?

Le madri piangono in silenzio. I padri non parlano. Qualcuno ha già cominciato a scavare in un altro punto. Perché, anche dopo il lutto, la fame resta.

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