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Un patriota senza patria: Gioacchino Volpe nell’Italia che non riconosceva più

Pubblicato: 05/06/2025 18:58

Non un’agiografia, né una condanna tardiva. Gioacchino Volpe nell’Italia repubblicana, curato da Giovanni Belardelli e Gianni Scipione Rossi per Rubbettino Editore, è un’operazione storiografica tanto rigorosa quanto necessaria. Concentrando l’attenzione sugli anni dal 1945 alla morte dello storico nel 1971, il libro ricostruisce con profondità la parabola conclusiva di uno degli intellettuali più influenti – e controversi – del Novecento italiano.

Abruzzese nato nel 1876 a Paganica, oggi frazione dell’Aquila, Volpe è stato uno dei massimi storici italiani del Novecento. “Il maggiore della mia e sua generazione”, riconobbe Gaetano Salvemini, pur così distante da lui. Molti studi sono stati dedicati alla sua attività scientifica negli anni precedenti alla Seconda Guerra Mondiale. Minore attenzione è stata dedicata ai suoi contributi nel periodo successivo. Per colmare questa lacuna l’Istituto Abruzzese per la Storia della Resistenza e dell’Italia Contemporanea (Iasric) ha promosso e organizzato – su iniziativa di Rossi – un convegno nazionale che si è svolto con la partecipazione di studiosi di varia formazione attenti al suo importante lascito. Opportunamente Gioacchino Volpe nell’Italia repubblicana ne raccoglie gli atti.

La scarsa attenzione dedicata alla sua produzione è in sostanza dipesa dal suo rapporto con la politica nella prima metà del Novecento. Monarchico di cultura liberal-nazionalista, si avvicinò al movimento mussoliniano dopo la Grande Guerra e nel 1924 fu eletto deputato nel “listone” fascista. Nel 1925 firmò il Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile. La sua adesione non fu tuttavia mai incondizionata. Nel 1939 fu tra i pochissimi a segnalare – nella seconda edizione della sua Storia del movimento fascista – il disagio diffuso per le leggi razziali, definite come “grossa costruzione teoretica di incerto valore scientifico e mal rispondente a tradizionali concezioni storiche italiane”. Al tracollo del regime si ritirò dalla scena pubblica, senza aderire alla RSI né al Regno del Sud, dedicandosi solo agli studi nella sua residenza di Santarcangelo di Romagna. Volpe rimase appartato, isolato. Eppure, nonostante l’epurazione accademica e il silenzio culturale impostogli dalla nuova egemonia antifascista, non smise mai di scrivere, riflettere, interrogarsi sulla storia d’Italia, completando la sua opera più imponente, Italia moderna.

Come sottolinea Giovanni Belardelli, che firma il saggio introduttivo del volume, Italia moderna fu l’impresa storiografica di un uomo sconfitto ma non domo, convinto che l’Italia potesse essere ancora raccontata nel suo “cammino” storico, anche se ormai spezzato. “A chi appartiene l’Italia moderna?”, si chiede Belardelli, e la risposta che emerge è insieme storica e politica, per chi ha saputo vederla non come progresso lineare, ma come dramma collettivo di un popolo in lotta con il tempo.

Volpe, da parte sua, scriveva con la consapevolezza amara di chi aveva perso tutto: il regime in cui aveva creduto, la patria monarchica, la cattedra, il prestigio. “Mi pare di portare in braccio un cadavere”, annota nel 1946, riferendosi all’Italia. Ma la scrittura diventa per lui atto di resistenza interiore, e Belardelli coglie perfettamente la cifra di quest’ultima fase: “Volpe, nella sua vecchiaia, si ritrovava, al pari di altri, uno storico senza patria”.

Nel saggio di Mirco Carrattieri, l’attenzione si sposta sulla percezione odierna dell’opera volpiana e sulla sua lenta e difficile reintegrazione nel dibattito storiografico. Carrattieri propone una chiave interpretativa forte: la marginalizzazione di Volpe fu non solo politica, ma epistemologica, legata al suo modo di fare storia, ancora radicato in una visione nazionale, totalizzante, per certi versi “romantica”. Ma proprio per questo, oggi, lo si può rileggere come una figura sintomatica delle fratture italiane del dopoguerra: “Volpe è utile non perché aveva ragione, ma perché ci ricorda da dove veniamo, e quanto poco abbiamo ancora detto di ciò che ci ha divisi”.
Nel suo contributo Guido Pescosolido affronta con lucidità il rapporto tra Volpe e il suo allievo Rosario Romeo, che pur avendo intrapreso strade diverse, non smise mai di considerare il maestro una figura centrale della storiografia italiana. Il passaggio più acuto del saggio è quello in cui Pescosolido mostra come Romeo, nel distanziarsi dall’ideologia di Volpe, ne abbia però assorbito la lezione di metodo, lo sguardo strutturale e la passione civile. La loro distanza fu più generazionale che politica: “Romeo, pur scegliendo la Repubblica, non si è mai sentito parte di quella cultura del sospetto che aveva condannato Volpe all’oblio”.

Il contributo di Federico Poggianti apre una finestra laterale, ma illuminante: quella sul rapporto tra Volpe e Gabriele D’Annunzio. Poggianti ricostruisce con finezza la lettura volpiana del Vate, lettura che non indulge mai nell’estetismo ma si concentra su un’idea dannunziana di vitalismo nazionale, di “energia italiana” come forza storica. Volpe vide in D’Annunzio non un artista decadente, ma un simbolo di quell’Italia che agiva nel mondo, e che la guerra aveva dissolto. Come nota Poggianti, “per Volpe, l’Italia di D’Annunzio era già perduta nel momento in cui nasceva la Repubblica: una nazione senza più missione”.

Da segnalare il tema affrontato da Giuseppe Parlato, che ha fatto luce sui rapporti di Volpe con le destre politiche del dopoguerra, attraverso la sua collaborazione alla pubblicistica di area. Non militante ma attento osservatore, ricorda Parlato, “L’ultimo contatto ufficiale fu una lettera aperta ad Almirante, pubblicata su «Il Secolo d’Italia» nel gennaio 1971, nella quale Volpe plaudiva all’avvio di una politica di fusione tra monarchici e missini; la fine di quel “fossato istituzionale” non poteva che trovare d’accordo lo storico abruzzese, giunto ormai al limitare della vita (sarebbe morto il 1°ottobre successivo)”. Gli italiani, raccomandava Volpe, devono essere aiutati a ritrovare il senso della Nazione, «che unisce in una ‘comunità di destino’ tutte le classi, tutte le forze, tutte le debolezze».

Margherita Angelini ha evidenziato i rapporti di Volpe con gli storici che erano stati suoi allievi, in particolare Eugenio Sestan e Federico Chabod. Marco Trotta ha analizzato la collaborazione con il quotidiano “Il Tempo”. Nipote dello storico, Serena Perrone Capano traccia un profilo familiare di Volpe. Giuseppe Lalli sottolinea il suo rapporto ancestrale con l’Abruzzo nativo. Dell’archivio dello storico conservato a Santarcangelo di Romagna dà puntualmente conto la responsabile della Biblioteca comunale Simona Lombardini.
Il libro ha il merito di non cercare né riabilitazioni né condanne. I curatori scelgono una postura storica e analitica, che consente al lettore di entrare nella complessità di un uomo che fu molte cose: storico vinto dalla storia, testimone del declino, profeta di un’identità smarrita. Volpe non fu un nostalgico, ma un lucido interprete del passato, che scriveva non per tornare indietro, ma per non perdersi nel presente. In un’Italia dove ancora si fatica a leggere i propri sconfitti, questo libro è un esercizio di maturità culturale. La figura di Volpe che ne emerge è scomoda, certo, ma anche intensamente umana: un uomo che si rifiutò di tradire sé stesso, e che pagò quel rifiuto con il silenzio. E proprio in quel silenzio, oggi, possiamo forse ascoltare qualcosa di ancora essenziale sugli italiani e la loro storia.

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