
Nella narrazione politica del centrodestra, Giovanbattista Fazzolari non è mai una voce qualsiasi. Ogni sua dichiarazione pubblica – specie quando arriva da Palazzo Chigi, come oggi – è da considerarsi una presa di posizione diretta della presidenza del Consiglio. Fazzolari, braccio operativo e ideologico di Giorgia Meloni, è l’interprete più fedele e accreditato del pensiero della premier. E lo è ancor di più nei momenti in cui il governo sceglie di non esporsi ufficialmente.
A urne ancora aperte, con una partecipazione ai minimi storici, il sottosegretario ha lanciato la sua analisi politica: “Le opposizioni hanno voluto trasformare i cinque referendum in un voto sul governo Meloni. Il responso appare molto chiaro: il governo ne esce ulteriormente rafforzato e la sinistra ulteriormente indebolita”. Un messaggio che, al di là delle percentuali e della disaffezione dell’elettorato, suona come una vera e propria dichiarazione di vittoria politica.

Un commento che pesa più dei numeri
L’affluenza sotto il 30% viene letta da Fazzolari non come una sconfitta della partecipazione democratica, ma come una conferma della solidità dell’esecutivo e della sua egemonia nella narrazione pubblica. In questa visione, l’astensione diventa un segnale di fiducia: non un “non voto”, ma una mancata mobilitazione delle opposizioni. È un’interpretazione che ribalta il paradigma classico del quorum: se non si raggiunge, la colpa è di chi ha promosso la consultazione, non di chi l’ha ignorata.
Ecco perché, nella logica comunicativa del governo, l’astensione si trasforma da sintomo di disinteresse democratico a prova di consenso silenzioso. Un ragionamento rischioso, ma politicamente efficace, perché riduce al silenzio qualsiasi tentativo di contro-narrazione.
La sinistra bersaglio fisso
Non è un caso che il termine “sinistra” venga usato come sinonimo di opposizione, senza nemmeno menzionare partiti o leader specifici. Fazzolari costruisce un frame preciso: la sinistra ha fallito perché ha politicizzato il referendum e, politicizzandolo, ha trasformato una battaglia sui diritti e sul lavoro in un test sul governo Meloni. Un test che, nella sua lettura, ha perso.
Questo schema retorico serve a mantenere alta la tensione tra governo e opposizioni, a consolidare il campo largo della destra e a offuscare ogni spazio di dissenso, persino quando prende la forma della democrazia diretta. Ed è significativo che a scandire questa linea sia proprio lui, il consigliere più vicino alla premier, colui che ne ha codificato e sostenuto l’identità sovranista fin dai tempi dell’opposizione.

Quando Fazzolari parla, è Giorgia Meloni che segna il punto
Nell’architettura del potere meloniano, Fazzolari non è un semplice portavoce. È l’ideologo interno che traduce il pensiero della leader in messaggi politici, che presidia i dossier più strategici e che incarna l’asse politico con Fratelli d’Italia. Non è un caso che oggi, nella giornata dell’affluenza in caduta libera, sia stato proprio lui a farsi trovare pronto davanti ai giornalisti: il governo non ha bisogno di parlare ufficialmente se può parlare attraverso Fazzolari.
Il messaggio è chiaro: non ci sarà nessun ripensamento, nessun passo indietro, nemmeno sul piano simbolico. Le opposizioni che volevano un voto contro Meloni, secondo Palazzo Chigi, sono finite schiacciate dal boicottaggio popolare. E così, anche una consultazione ignorata da oltre il 70% degli italiani può diventare, nella lettura del governo, un trionfo comunicativo.
In conclusione, il commento di Fazzolari va ben oltre la cronaca del giorno. È l’inquadratura strategica del potere meloniano, che trasforma ogni evento in un’occasione per rafforzare il consenso e disarticolare il fronte avversario. Anche – e forse soprattutto – quando le urne parlano più di silenzio che di scelte.