
Ancora una volta l’Italia ha mancato l’appuntamento con la democrazia diretta. Anche questo referendum, l’ennesimo degli ultimi anni, si è infranto contro l’ostacolo del quorum. Il fallimento è ormai una costante, una regola non scritta del nostro tempo. Per trovare un referendum che abbia raggiunto il quorum — quella soglia minima di partecipazione popolare che ne sancisce la validità — dobbiamo fare un salto indietro di quattordici anni, fino al 2011, quando milioni di cittadini si mobilitarono per dire no alla privatizzazione dell’acqua e al ritorno del nucleare.
Che cosa è cambiato da allora? Perché oggi il popolo italiano, un tempo protagonista dei grandi appuntamenti referendari, è diventato spettatore disinteressato, quando non del tutto assente?

La crisi strutturale del referendum abrogativo
Il primo nodo da affrontare è la forma stessa dello strumento referendario. Il referendum abrogativo, previsto dall’articolo 75 della Costituzione, richiede che si rechino alle urne almeno il 50% più uno degli aventi diritto al voto. È una soglia pensata per evitare che una minoranza decida per la maggioranza, ma nella pratica si è trasformata in un muro insormontabile, soprattutto in un’epoca in cui l’astensionismo è strutturale.
Negli ultimi vent’anni, il quorum è diventato una chimera. Dal 1995 al 2024, ben 23 referendum su 30 non hanno superato la soglia. E negli ultimi dieci anni, nessuno. Il referendum è così divenuto uno strumento spuntato, quasi rituale, utilizzato più per fini simbolici o politici — mobilitare le proprie basi, lanciare segnali al governo — che per reali obiettivi normativi.
L’astensionismo come strategia politica
Ma se il disinteresse civico ha un ruolo importante, va detto che il mancato quorum non è solo il risultato di un’apatia crescente. Negli anni, le forze politiche — soprattutto quelle al governo — hanno fatto dell’astensione una vera e propria strategia. Non si combatte più il quesito nel merito: lo si svuota, lo si boicotta, lo si rende invisibile. Invitare a non votare è divenuto lo strumento più efficace per neutralizzare il referendum.
Così, il messaggio che passa ai cittadini è chiaro: non vale la pena partecipare. Non perché il tema non sia importante, ma perché l’intero meccanismo è stato svuotato di significato. L’assenteismo non è solo sociale, è indotto, incoraggiato, persino legittimato.
Una classe politica autoreferenziale
Il fallimento del referendum è anche il sintomo di una crisi più profonda: quella del rapporto tra cittadini e istituzioni. I partiti, soprattutto quelli di governo, tendono a disinnescare il conflitto sociale piuttosto che affrontarlo. Si preferisce la stabilità alla partecipazione, il controllo all’ascolto. Il risultato? Una democrazia sempre più verticale, in cui la base viene interpellata solo in modo formale, e in cui la partecipazione è ridotta a un orpello, a un gesto folkloristico.
Quando i cittadini percepiscono che le decisioni sono già prese, che la loro voce non avrà alcun impatto concreto, la partecipazione muore. E con essa muore anche la democrazia partecipativa.

La responsabilità dei media
Non possiamo ignorare poi l’enorme responsabilità del sistema mediatico. I referendum, salvo rare eccezioni, passano sotto silenzio. Pochi talk show, nessun approfondimento, pochissima pubblicità istituzionale. I cittadini spesso non sanno nemmeno che si vota, o non comprendono il contenuto dei quesiti, spesso formulati in maniera tecnocratica e volutamente opaca.
Il silenzio mediatico è funzionale a chi il referendum lo vuole fallito. Informare davvero significherebbe rischiare di mobilitare il Paese, di risvegliare quella partecipazione latente che ancora esiste ma è compressa, disorientata, scoraggiata.
E ora?
La domanda è inevitabile: ha ancora senso il referendum in Italia? Se nella pratica è diventato un simulacro, una liturgia destinata al fallimento, forse è il momento di ripensarne profondamente i meccanismi. Due strade sono possibili: riformare la legge per eliminare o abbassare il quorum, oppure rilanciare con forza la partecipazione popolare, investendo in educazione civica, informazione libera e campagne istituzionali serie.
Ma qualsiasi riforma, per essere efficace, deve partire da un presupposto: la volontà politica di restituire potere al popolo. Oggi, quella volontà sembra mancare. E finché sarà così, continueremo a celebrare il funerale della democrazia diretta, una domenica elettorale dopo l’altra.
Perché il problema non è il referendum. Il problema è un sistema politico che ha smesso di credere nella partecipazione dei cittadini. E finché non sarà la politica a voler cambiare rotta, resteremo ostaggio di una democrazia dimezzata, in cui si vota sempre meno, si partecipa ancora meno, e si decide solo in alto loco.