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Referendum cittadinanza, i numeri parlano chiaro: doppio flop e un avvertimento

Pubblicato: 09/06/2025 17:27
referendum cittadinanza

Il quorum non c’è, e anche tra chi vota un italiano su quattro dice no. Non è bastato evocare i bambini nati e cresciuti in Italia. Non sono bastati i racconti di seconde generazioni che parlano solo italiano, studiano nelle nostre scuole, tifano le nostre squadre e sognano il nostro futuro. Alla fine, neanche in un referendum dai toni civili e dall’affluenza minima, l’Italia ha saputo dire un sì deciso al tema della cittadinanza.

Il quesito sull’estensione dei diritti ai figli di immigrati regolari ha raccolto oltre il 60% di voti favorevoli, ma resta una doppia sconfitta. Perché non raggiungere il quorum è già un segnale pesante: ha votato solo il 30% degli italiani, e questo rende ogni risultato una minoranza nella minoranza. Ma c’è di più: anche dentro quel terzo di Paese che ha deciso di esprimersi, quasi un elettore su quattro ha detto no. Un no che pesa.

Il contrasto con i quesiti sul lavoro

Il confronto con gli altri quesiti è impietoso. Sul lavoro il messaggio è stato compatto: l’80% dei votanti ha scelto l’abrogazione di norme considerate punitive per i lavoratori. Lì l’Italia che si è presentata alle urne ha parlato con forza, ha detto “basta precarietà”, ha chiesto tutele, ha mostrato un volto solidale. Ma sulla cittadinanza, quel fronte si è spaccato. E la frattura non è numerica: è culturale.

Il mancato quorum non attenua la portata di questa spaccatura. Anzi, la amplifica. Perché indica che anche in un campione selezionato, determinato, politicizzato – cioè tra chi ha deciso di votare – il tema divide. È la dimostrazione che l’Italia è ancora ferma nel dibattito identitario, ancora imprigionata nella paura di perdere qualcosa, invece che desiderosa di includere.

Nessun segnale di consenso

Il 60% di sì non è un segnale da leggere in positivo. È la conferma che nemmeno tra i più motivati esiste un consenso netto su un tema basilare per una società moderna. In una giornata elettorale in cui bastava poco per contare, il Paese ha voltato le spalle. E tra chi ha alzato la mano, uno su quattro ha scelto la chiusura. Questo non è un risultato incoraggiante: è un campanello d’allarme.

Chi si aspettava un’affermazione simbolica, anche senza quorum, oggi si trova davanti a una disillusione cocente. Il voto conferma che l’Italia dei diritti sociali – quella che ha detto sì al lavoro – non coincide con l’Italia dei diritti civili. I confini della cittadinanza, per molti, restano ancora sacri, rigidi, difesi con diffidenza.

Le colpe della politica

C’è chi ha soffiato sul fuoco della paura, come sempre. Il racconto tossico della “sostituzione etnica”, dei “regali di cittadinanza”, della “difesa dell’identità” è riemerso puntuale, anche se più sussurrato. Ma il problema non è solo della destra. La sinistra, ancora una volta, ha scelto la timidezza. Ha parlato di tecnicalità, non di futuro. Di norme, non di vite.

Non è riuscita a costruire una narrazione calda, capace di mobilitare, emozionare, spiegare. Ha lasciato che il tema venisse definito dagli avversari, accettando una cornice difensiva, come se la cittadinanza fosse una concessione e non un diritto.

Un’occasione mancata

Il referendum, nel suo fallimento, lascia in eredità un’amara lezione: l’Italia non è ancora pronta a guardarsi allo specchio e riconoscere la realtà della propria composizione sociale. Non è pronta a chiamare italiani coloro che già vivono, studiano, lavorano come italiani. Il fatto che questo accada nel 2025, dopo decenni di discussione, è un sintomo inquietante.

Non è solo un risultato deludente. È una doppia bocciatura: della partecipazione e del coraggio. Il quorum mancato e il consenso parziale dicono che l’Italia ha ancora paura dell’altro, e forse anche di sé stessa. Ma non si potrà sempre restare fermi. Perché la realtà, a differenza della politica, non aspetta.

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