
Il Medio Oriente attraversa giorni tesissimi, i bombardamenti scuotono la regione e l’opinione pubblica globale segue ogni sviluppo con apprensione.
Le piazze europee ospitano sit‑in di solidarietà, i social amplificano video drammatici, le istituzioni culturali commentano con toni sempre più accesi.
L’Italia partecipa al dibattito in modo appassionato, il teatro lirico diventa cassa di risonanza per artisti che intrecciano arte e denuncia.
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Il grido di un artista in esilio

Ramtin Ghazavi, tenore iraniano del coro della Scala, rompe il silenzio e lancia un appello durissimo contro il regime iraniano.
Nato a Esfahan nel 1980, Ramtin ricorda la guerra con l’Iraq, le bombe sull’infanzia, i rifugi, le code per il latte e afferma di conoscere il prezzo della guerra più di chi commenta da lontano.
Il cantante vive in Italia dal 2002, lavora nel tempio della lirica milanese dal 2007 e non rientra in patria da dieci anni perché teme ritorsioni.
Il tenore guarda le mappe dei raid israeliani e usa parole forti: “Vedo le bombe come un parente che entra in sala operatoria, rischia la vita ma può guarire”, afferma con voce ferma. Secondo Ramtin il potere di Teheran appare indebolito, la popolazione resta ostaggio di una minoranza armata, la caduta della “testa del serpente” aprirebbe la strada a una rivolta popolare. Il cantante respinge i paragoni con l’invasione russa dell’Ucraina e sostiene che il conflitto attuale affonda radici profonde, ben oltre il dossier nucleare.
Anni di proteste e simboli sul palcoscenico

Alla Prima del 2023 Ramtin indossa una maglietta con lo slogan “Donna Vita Libertà” prima di esibirsi nel Don Carlo di Verdi, lancia un messaggio chiaro a chi soffre in Iran e ripete che ottanta milioni di persone vivono “in un Paese ricchissimo con la popolazione più povera”.
Il tenore paragona la Repubblica islamica alla Corea del Nord, denuncia quarantasette anni di diritti calpestati, racconta di attivisti torturati e di famiglie ridotte alla fame.
Si infuria davanti a chi, in Italia, critica Israele senza conoscere la realtà iraniana, definisce ingiusti i paragoni fra Gaza e Teheran, invita a distinguere tra aggressione gratuita e risposta contro un potere teocratico.
Il cantante vive a Milano con nostalgia costante per i genitori rimasti a Esfahan, telefona ogni sera, teme per la loro sicurezza e chiede agli amici di inviare notizie in tempo reale. Confessa di sognare un ritorno solo a regime crollato; intanto insegna canto ai giovani, partecipa a raccolte fondi per bambini iraniani malati, usa la musica per sostenere la causa della libertà. Gli amici del coro lo sostengono, molti colleghi firmano petizioni a favore dei prigionieri politici, il pubblico della Scala applaude le sue uscite coraggiose.
Una protesta lunga decenni

L’Iran vive proteste cicliche fin dalla rivoluzione del 1979, le manifestazioni esplodono a ondate, ogni volta si contano morti, arresti, sparizioni. La diaspora iraniana mantiene viva l’attenzione, i media occidentali offrono spazi ma la censura interna spezza molte catene informative. La comunità internazionale discute sanzioni, accordi, trattative sul nucleare, intanto la società civile chiede diritti essenziali: lavoro, libertà di parola, assistenza sanitaria.
Ramtin Ghazavi conclude con una frase netta: “Il serpente ha perso forza, serve un colpo finale, poi la gente farà il resto”. Il tenore rifiuta la retorica della vendetta, parla di chirurgia politica, immagina un Paese nuovo che accolga arte, musica, pluralismo religioso. La sua storia dimostra come la potenza di una voce possa attraversare confini, unire platee diverse e trasformare il canto in strumento di denuncia.
Il regime iraniano gestisce risorse petrolifere immense, controlla la sicurezza con polizia morale, investe in programmi missilistici e milizie regionali. La povertà cresce, la valuta perde valore, i giovani cercano sbocco all’estero, le sanzioni aggravano il disagio quotidiano. Molti analisti ritengono che pressioni interne ed esterne possano convergere in un cambiamento, ma resta incerta la strada e resta alto il prezzo umano di ogni conflitto armato.