
Non c’è stata fuga radioattiva. Ma la parola ha cominciato a circolare come un’ombra lunga. Prima nei rapporti riservati dell’Aiea, poi nelle frasi scandite al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: catastrofe, contaminazione, conseguenze regionali. A poco più di 48 ore dagli attacchi israeliani contro gli impianti nucleari dell’Iran, la paura si è fatta concreta. E il lessico, improvvisamente, ha smesso di essere solo retorica bellica.
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I bombardamenti, condotti con precisione su almeno quattro siti strategici (Natanz, Isfahan, Fordow, Tabriz), hanno colpito installazioni che contengono uranio arricchito, reagenti chimici e materiali ad alta sensibilità. Il sito di Natanz, in particolare, è stato descritto come “danneggiato in superficie”, ma ancora operativo in profondità. Le autorità iraniane hanno confermato la presenza di una “contaminazione radiologica interna”, specificando che è stata circoscritta. Eppure non è bastato a rassicurare la comunità internazionale.
La denuncia iraniana all’Onu: “catastrofe possibile”
Nel suo intervento alle Nazioni Unite, l’ambasciatore iraniano ha accusato Israele di aver commesso un “crimine di guerra” e ha parlato esplicitamente di “atto di terrorismo di Stato”. Ma la parte più significativa del suo discorso ha riguardato le conseguenze non visibili dell’attacco: “Ogni danno alle infrastrutture nucleari può provocare conseguenze radioattive catastrofiche, non solo per l’Iran ma per l’intera regione”, ha detto. Ha inoltre accusato gli Stati Uniti di essere complici attraverso la fornitura delle armi usate nei raid.

L’allarme riguarda una dimensione fino a ieri rimossa: non tanto la bomba come arma, ma il materiale nucleare come fragilità strategica, vulnerabile agli attacchi e potenzialmente letale se disperso.
I dati dell’Aiea: “Nessuna fuga, ma contaminazione interna”
L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ha rilevato che i livelli esterni di radiazione sono rimasti stabili, ma ha confermato che all’interno degli impianti ci sono state contaminazioni di tipo radiologico e chimico. Il direttore Rafael Grossi ha definito la situazione “sotto controllo ma da monitorare” e ha chiesto pieno accesso alle aree colpite. L’Iran, da parte sua, ha promesso collaborazione.
Resta però il dubbio: quanto può reggere un’infrastruttura bombardata prima che una microfrattura comprometta l’integrità del sistema di contenimento? Gli impianti nucleari non sono stati costruiti per reggere guerre, ma per reggere la pressione sotterranea. E ora, a cedere, rischia di essere la logica stessa della deterrenza.
Una nuova minaccia per tutto il Medio Oriente
La dimensione del rischio si è spostata. Non è più solo quella della proliferazione, ma quella della disgregazione incontrollata. Un ordigno non serve: basta un’esplosione mal mirata, o un incendio nel posto sbagliato. Paesi come Turchia, Iraq, Afghanistan, Pakistan — e persino Israele — sono potenzialmente esposti a ricadute ambientali, qualora il contenimento fallisse.
Teheran ha già avviato controlli nelle zone rurali, ma il messaggio politico è chiaro: colpire un sito nucleare significa giocare con qualcosa che non appartiene più solo alla guerra, ma all’ecosistema. E la contaminazione non ha confini. Né frontiere. Né alleati.