
L’attacco aereo sferrato da Israele contro le infrastrutture militari e nucleari dell’Iran ha segnato una svolta strategica. Non si è trattato di un’azione dimostrativa: l’obiettivo era colpire laboratori sotterranei, basi della Guardia rivoluzionaria, centri di comando e scienziati coinvolti nel programma atomico. Una serie di incursioni calibrate e coordinate con l’intento non solo di rallentare il programma nucleare, ma anche – e forse soprattutto – di indebolire la tenuta politica del regime.
Mentre Teheran risponde con la consueta retorica della vendetta e rilancia missili verso Israele, il fronte più instabile non è quello militare, ma quello interno. Il colpo ha aperto una crepa che attraversa l’intero sistema di potere.

La crepa interna
L’Iran è un paese esausto. L’embargo ha devastato l’economia, il rial ha perso valore, la disoccupazione colpisce soprattutto i giovani, e l’inflazione svuota i salari. Le proteste non si sono mai spente: hanno cambiato forma, sono diventate più frammentate, più disperse, ma hanno eroso il consenso su cui si fondava il regime.
Oggi anche tra le élite si respira inquietudine. Negli ultimi giorni, circolano voci confermate su un crescente numero di dirigenti e membri dell’apparato che stanno predisponendo vie di fuga verso la Russia. Si tratterebbe di uomini chiave dei servizi, delle milizie e della politica che, approfittando di vecchi canali di cooperazione, stanno ottenendo passaporti, garantendosi protezione o trasferendo beni. Il messaggio è chiaro: non credono più nella stabilità del sistema. E si preparano.

Le faglie del potere
L’apparato iraniano è tutt’altro che coeso. Da anni si registrano tensioni tra le diverse componenti: il potere religioso, l’esercito regolare, i servizi di intelligence, la Guardia rivoluzionaria. L’eliminazione o la neutralizzazione di figure di comando strategiche sta generando una crisi nella catena di comando e alimenta sospetti, diffidenze, faide interne.
In questo scenario, il rischio più immediato non è tanto una rivolta di piazza, quanto una frattura verticale del potere. Quando i dirigenti iniziano a guardarsi le spalle e a cercare un’uscita – verso Mosca o altre capitali amiche – è il segnale che il centro non tiene più.

Le tre ipotesi
Il primo scenario è quello della repressione pura: il regime stringe i ranghi, innalza il livello di controllo, silenzia ogni opposizione. È lo schema già visto, ma sempre più difficile da sostenere senza un minimo di legittimità.
Il secondo è quello della transizione pilotata: un segmento dell’apparato prende il controllo, sacrifica l’ala più ideologica e prova a conservare il potere attraverso un cambiamento di facciata. Questa via può attrarre chi cerca di sopravvivere, ma richiede un equilibrio delicatissimo.
Il terzo scenario, ancora minoritario ma crescente, è quello del crollo sistemico: lo smottamento interno si somma a una rivolta coordinata e provoca l’implosione del regime. Qui entrano in gioco variabili imprevedibili: l’atteggiamento dei militari, la spinta delle minoranze etniche, la possibilità di frammentazioni incontrollate.

Il tempo del crepuscolo
L’Iran non è sull’orlo del baratro. Ma il meccanismo di sopravvivenza del regime si sta logorando. L’attacco israeliano ha reso evidente una vulnerabilità politica profonda. Le proteste non si placano. Le élite preparano la fuga. Mosca si profila come rifugio dei fedelissimi. Il popolo non ha più paura. E un potere fondato sul terrore, quando non incute più timore, entra nel tempo del crepuscolo.
Il crollo non è imminente. Ma è ormai una possibilità reale. Non un tabù, non un miraggio: una prospettiva concreta, che qualcuno – già oggi – cerca di anticipare.