
Il palcoscenico del G7 in Canada si è trasformato, ancora una volta, nell’arena prediletta da Donald Trump per scuotere gli equilibri consolidati e riaffermare la sua visione disruptive delle relazioni internazionali.
Con una schiettezza disarmante e una propensione a deviare dai protocolli diplomatici, il presidente americano ha dettato l’agenda, non solo con le sue posizioni sui temi caldi, ma anche con le sue provocazioni inattese, che hanno lasciato gli alleati tra lo sgomento e l’imbarazzo.
G7, Trump non vuole firmare la dichiarazione su Israele e Iran
La questione più scottante emersa è stata senza dubbio il rifiuto categorico di Trump di sottoscrivere la dichiarazione congiunta del G7 sul conflitto tra Israele e Iran. La bozza, improntata a un linguaggio prudente che prevedeva il monitoraggio dell’Iran e un appello alla protezione dei civili e all’impegno per la pace da entrambe le parti, è stata giudicata insufficiente dal tycoon.
La sua posizione è stata chiara e inequivocabile: “L’Iran non sta vincendo la guerra, deve riprendere i colloqui immediatamente prima che sia troppo tardi”. Un monito diretto, che lascia intendere una scarsa fiducia nelle soluzioni diplomatiche “morbide” e un’inclinazione a un approccio più incisivo e risoluto.
Ma il vero colpo di scena è arrivato con la proposta, tanto ardita quanto controversa, di affidare a Vladimir Putin il ruolo di mediatore nella crisi israelo-iraniana. Un suggerimento che ha scatenato un’alzata di scudi immediata tra gli alleati, comprensibilmente restii ad affidare un ruolo così delicato a un leader la cui credibilità e imparzialità sono state messe in discussione in molteplici contesti internazionali, non ultimo quello ucraino. Questa mossa, tuttavia, non è casuale: si inserisce perfettamente nella strategia trumpiana di riabilitazione della Russia e di rimescolamento delle carte geopolitiche, con l’obiettivo di delineare un nuovo assetto di potere in cui gli Stati Uniti e la Russia, nonostante le tensioni, possano collaborare su dossier strategici.

La “cacciata” della Russia dal G8: una ferita mai rimarginata
Il vertice è stato anche l’occasione per Trump di riaprire una ferita mai rimarginata: la “cacciata” della Russia dal G8, trasformato in G7, avvenuta dopo l’annessione della Crimea nel 2014. “Il G7 un tempo era il G8: Barack Obama e una persona chiamata Trudeau non hanno voluto la Russia”, ha tuonato Trump, stigmatizzando l’errore di “cacciare” Vladimir Putin. Una decisione che, a suo dire, avrebbe condotto direttamente alla guerra in Ucraina: “Non avremmo avuto la guerra, se fosse stato membro di quello che a quel tempo era il G8 non avremmo avuto la guerra”.
Per Trump, l’esclusione di Mosca non solo è stata un errore strategico, ma anche un’offesa personale per Putin: “Putin parla con me, non parla con nessun altro perché è stato offeso quando è stato cacciato dal G8, anche io lo sarei, come chiunque altro, è stato altamente offensivo“. Un’analisi che, al di là della veridicità storica o politica, rivela la profonda empatia di Trump per la figura di Putin e la sua convinzione che un dialogo diretto con il leader russo sia la chiave per risolvere le crisi internazionali. La sua riproposizione della riammissione di Mosca nel consesso dei Grandi, già avanzata nel 2018, conferma la sua ostinazione nel voler riscrivere le regole del gioco internazionale, ignorando le resistenze degli alleati.
La Cina nel G7? Una provocazione che apre a scenari inattesi
Non contento di aver scosso le fondamenta del G7 con le sue posizioni sull’Iran e sulla Russia, Trump ha lanciato un’ulteriore provocazione, suggerendo l’inclusione della Cina nel gruppo. “Perché non avere la Cina qui, la più grande economia nel mondo dopo gli Usa – ha detto il tycoon – beh non sarebbe una cattiva idea, se qualcuno lo suggerisse, se si vogliono persone con cui si può parlare”.
Un’idea, apparentemente estemporanea, che in realtà si inserisce in una logica più ampia di ridefinizione degli equilibri globali. L’inclusione della Cina nel G7, sebbene al momento impensabile per molti, riflette la visione di Trump di un mondo multipolare in cui le potenze economiche e militari dialogano direttamente, al di fuori delle rigide alleanze tradizionali. È una proposta che, pur nella sua eccentricità, solleva interrogativi importanti sulla rappresentatività e sull’efficacia del G7 come forum per affrontare le sfide globali del XXI secolo.

Il commercio: la priorità indiscussa di Trump
Al di là delle diatribe geopolitiche, la vera priorità per Trump al G7 è stata, come prevedibile, il commercio. “Il commercio, e il commercio con il Canada, sono sicuro che possiamo far funzionare qualcosa”, ha dichiarato, ponendo l’accento sulla sua visione pragmatica e transazionale delle relazioni internazionali. La questione dei dazi, punto dolente nelle relazioni con il Canada, è stata affrontata con la consueta schiettezza: “Io ho un’idea sui dazi, Mark (Carney, ndr) ne ha una diversa – ha aggiunto – vederemo se possiamo andare al fondo della cosa”. Un approccio da negoziatore consumato, che mira a ottenere il massimo vantaggio per gli Stati Uniti, anche a costo di tensioni e frizioni con gli alleati.
In un vertice dominato dalla presenza ingombrante di Trump, un episodio ha colpito particolarmente: l’interruzione da parte del premier canadese Mark Carney delle domande dei giornalisti, un gesto raramente osato davanti al presidente americano. Un’azione che ha evitato che l’appuntamento si trasformasse in una delle sessioni fiume a cui Trump è abituato alla Casa Bianca, dimostrando una rara fermezza nel tentativo di arginare la sua propensione a monopolizzare la scena e a deviare dai temi concordati.