
Voci di fughe, rifugi sotterranei e appelli all’insurrezione. Nelle stesse ore in cui il premier israeliano Benjamin Netanyahu invoca apertamente il cambio di regime in Iran, si moltiplicano le notizie, non verificabili, su presunti piani di evacuazione per i vertici della Repubblica islamica. È lo scenario sempre più instabile che accompagna l’offensiva lanciata da Israele contro le infrastrutture strategiche di Teheran.
Secondo quanto riferito dalla televisione Iran International, con sede a Londra e vicina ai settori dell’opposizione in esilio, Ali Asghar Hejazi, vice capo di gabinetto della Guida suprema Ali Khamenei, sarebbe in contatto con le autorità russe per ottenere un salvacondotto in caso di collasso del regime. E non sarebbe il solo.

Rifugi, missili e simboli della monarchia
L’emittente afferma che anche altri dirigenti avrebbero attivato canali diplomatici con Mosca. Intanto, la Guida suprema sarebbe già stata trasferita in un rifugio sotterraneo nella zona nord-est della capitale, a Lavizan, per metterlo al riparo dagli attacchi israeliani che nelle ultime ore hanno colpito anche le sedi istituzionali al centro di Teheran, tra cui Parlamento e ministeri.
In questo contesto, l’idea di un tentativo di colpire direttamente Khamenei non appare più fantascientifica. Anche per via delle parole di Netanyahu, che venerdì ha chiesto al “popolo iraniano” di unirsi per far cadere un “regime malvagio e oppressivo”. Il premier ha anche smentito una notizia della Reuters secondo cui il presidente Donald Trump avrebbe posto il veto a un eventuale assassinio della Guida suprema.
“Rising Lion”, omaggi e messaggi alla diaspora
Nel suo appello, Netanyahu ha fatto riferimento all’“eredità storica dell’Iran”, un passaggio interpretato da alcuni analisti come un richiamo implicito all’epoca precedente alla rivoluzione islamica del 1979. A rafforzare l’idea di una strategia mirata a destabilizzare il regime in favore di un ritorno della dinastia Pahlavi, anche il nome scelto per l’operazione militare: Rising Lion, richiamo diretto al leone della bandiera monarchica.
Da anni il figlio dell’ultimo Scià, Reza Pahlavi, mantiene rapporti stretti con Netanyahu e risiede negli Stati Uniti. In un videomessaggio diffuso nelle scorse ore, l’erede della casata non ha chiesto una rivolta popolare, ma ha esortato la popolazione a “atti di sfida”, come non andare al lavoro, lavorare meno o presentarsi in ritardo. Alle forze armate e di sicurezza, ha invece chiesto di “allontanarsi dal regime e unirsi al popolo”.

Appello degli intellettuali, mentre circolano video di esodi
Per la prima volta dall’inizio del conflitto, sette tra intellettuali e attivisti hanno preso posizione in un appello pubblico. Tra loro le premio Nobel per la pace Shirin Ebadi e Narges Mohammadi, i registi Mohammad Rasoulof e Jafar Panahi. Il loro messaggio, pubblicato da Le Monde, chiede la “fine delle ostilità militari” e la cessazione dell’“arricchimento dell’uranio”. Sul cambio di regime, dichiarano: “Sì a una transizione pacifica verso la democrazia, ma nel rispetto dell’integrità territoriale dell’Iran”.
Nel frattempo, sui social continuano a circolare video di aerei in partenza dall’aeroporto Mehrabad con a bordo presunti dirigenti del regime. Immagini impossibili da verificare, ma che alimentano la tempesta informativa in corso. Lo stesso vale per le notizie sulla sorte di Ali Shamkhani, consigliere di Khamenei: Iran International ne aveva annunciato la morte nei primi raid israeliani, mentre la televisione di Stato afferma che sarebbe solo ferito, in condizioni stabili.