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“Perché Trump vuole la guerra”: cosa può succedere davvero nelle prossime ore

Pubblicato: 17/06/2025 21:13

Non si parla più solo di sanzioni, né di deterrenza diplomatica. Le parole pronunciate nelle ultime ore e le mosse ordinate ai vertici militari americani indicano un cambio di passo netto: la guerra contro l’Iran è ormai una possibilità concreta. Il presidente non la evoca come ultima risorsa, ma come strumento necessario a ristabilire l’ordine. L’Iran rappresenta, oggi, il bersaglio ideale: è isolato, delegittimato, ostile, e soprattutto simbolico. Attaccarlo significa colpire il cuore di un sistema di alleanze nemiche dell’Occidente, rompere l’inerzia internazionale e ridefinire il baricentro del potere globale.

Quello che si profila non è un intervento difensivo, ma un’operazione a carattere fondativo. Distruggere il programma nucleare iraniano equivale a chiudere un lungo ciclo di ambiguità strategica, alimentato da accordi mai rispettati e da trattative che hanno solo congelato le tensioni. La nuova Casa Bianca non intende più congelare nulla. Al contrario, considera la dimostrazione della forza come premessa per ogni negoziato futuro. Non si tratta più di contenere, ma di spezzare. Di affermare chi comanda e chi deve rassegnarsi a perdere.

Israele in prima linea, ma la regia è a Washington

La saldatura con Israele è totale. Il governo Netanyahu, forte della copertura americana, ha già colpito infrastrutture militari e nucleari nelle periferie di Teheran. Ma la vera guida dell’operazione è nella capitale statunitense. Ogni mossa israeliana appare inserita in una strategia più ampia, che prevede escalation calibrate, messaggi pubblici alla popolazione iraniana e un progressivo isolamento del regime sul piano internazionale. In questa cornice, la richiesta di evacuazioni, il linguaggio bellico usato nei comandi interforze e la mobilitazione dell’intelligence non sono dettagli tattici, ma segnali di un conflitto annunciato.

L’Europa, ancora una volta, viene tagliata fuori. Le reticenze diplomatiche di Parigi e Berlino non hanno peso. Le cancellerie esitano, ma alcuni leader — come quello tedesco — cominciano ad allinearsi, definendo il regime “molto indebolito” e lasciando intendere che un attacco frontale potrebbe essere inevitabile. Non per convinzione, ma per non essere esclusi dallo scenario post-bellico. Chi resta fuori adesso rischia di essere marginale domani.

Una guerra pensata per essere breve e decisiva

Nelle intenzioni americane, il conflitto non deve trascinarsi. Deve essere rapido, spettacolare, chirurgico e irreversibile. La distruzione dei siti atomici iraniani è solo l’inizio: si punta a colpire anche le linee di comando, i centri nevralgici della Guardia Rivoluzionaria e le reti militari che sostengono Hezbollah. Non si esclude una serie di incursioni mirate in Siria e in Iraq, laddove le milizie filo-iraniane hanno consolidato il loro potere negli ultimi anni. L’obiettivo è smantellare l’architettura militare regionale costruita da Teheran, togliendo ossigeno alla sua proiezione internazionale.

Ma la guerra serve anche a consolidare la leadership americana su scala globale. Dopo l’Afghanistan, dopo le esitazioni in Ucraina, dopo gli anni del disimpegno tattico, questa operazione serve a dimostrare che gli Stati Uniti restano l’unica potenza capace di decidere, agire e vincere. Il messaggio è rivolto agli avversari, ma anche agli alleati, ai mercati, agli apparati militari. È un modo per dire: il caos si ferma quando decidiamo noi.

Il momento scelto non è casuale

Ogni conflitto ha la sua finestra strategica. Questa è quella giusta. Il regime iraniano è internamente fragile, diviso, delegittimato. L’economia è al collasso, la società civile sotto pressione, la credibilità delle istituzioni ai minimi storici. Inoltre, il sostegno russo è distratto dal fronte europeo, mentre quello cinese resta prudente. Non ci sarà occasione migliore per colpire senza subire ritorsioni coordinate. Il calcolo, in questo senso, è brutale ma razionale: se non ora, quando?

In più, il momento ha una valenza politica interna fortissima. Una guerra gestita con decisione e senza vittime americane può trasformarsi in un enorme dividendo politico. Rafforza l’immagine presidenziale, mette a tacere l’opposizione, unisce l’establishment della difesa, e galvanizza un elettorato conservatore che chiede ordine, forza e vittoria. L’Iran, sotto questo profilo, è un nemico perfetto: odioso, visibile, distante, ma non inafferrabile. E soprattutto, utile.

Il rischio di un’escalation incontrollata

Ma una guerra, anche se pensata come rapida e chirurgica, non è mai interamente prevedibile. L’Iran ha capacità missilistiche significative, una rete di alleanze sotterranee, e il potenziale per destabilizzare l’intera regione. Colpire Teheran significa aprire un vaso di Pandora che potrebbe includere ritorsioni contro Israele, attacchi alle basi americane nel Golfo, minacce agli oleodotti, e una ripresa del terrorismo asimmetrico in Europa. Nessuno può escludere che, a un certo punto, anche altri attori entrino in gioco, rendendo il conflitto meno gestibile.

Tuttavia, per chi oggi prende le decisioni alla Casa Bianca, il rischio è calcolato. E soprattutto, viene giudicato accettabile. Perché la guerra contro l’Iran non serve solo a distruggere qualcosa. Serve a ricostruire una gerarchia. A ridisegnare una mappa. A rimettere l’America al centro, non della diplomazia, ma del comando.

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