
C’è Pasolini e c’è Tomasi di Lampedusa, c’è persino un testo sull’indignazione nei social e uno sul rispetto, tratto da un articolo del caporedattore di Avvenire. C’è Borsellino, con il suo messaggio ai giovani, e ci sono gli anni Trenta e il New Deal, in un brano dello storico inglese Piers Brendon. Si potrebbe pensare a un mosaico ricco e sfaccettato. Ma a ben vedere, quello offerto oggi agli oltre 500mila maturandi italiani appare più come un album di figurine culturali, incorniciato e statico, dove ogni autore e ogni tema ha il suo posto, il suo senso già precotto, e il suo uso didascalico.
È un’antologia dell’Italia che ci piace ricordare: quella dei valori, delle lotte vinte, delle grandi firme. Una selezione che racconta molto delle intenzioni del ministero, ma forse poco dei ragazzi cui si rivolge. Si resta sempre sulla superficie dei nomi, sulle certezze del canone. Nulla che metta realmente in crisi lo studente, nulla che chieda di sporcarsi con l’ambiguità o con le fratture del presente.
Una scuola che santifica e neutralizza
A colpire è soprattutto l’uso simbolico degli autori. Si sceglie Pasolini, ma lo si prende nella sua versione meno corrosiva, quella del diario lirico, dell’autobiografia epurata. Nessuna bestemmia linguistica, nessuna polemica contro l’omologazione culturale o contro il sistema scolastico stesso, che pure fu uno dei suoi bersagli. Il Pasolini corsaro, quello che divideva, qui viene neutralizzato, resettato.
Lo stesso accade con Borsellino. La sua figura resta fondamentale nella memoria civile del Paese, ma viene offerta ai ragazzi in un formato consolatorio: “i giovani sono la mia speranza”, come se bastasse la fiducia per generare futuro. Niente che implichi conflitto, disobbedienza, scontro con le strutture della corruzione. È un Borsellino da santino.
E poi c’è il Gattopardo, ma non quello che spiega la restaurazione mascherata da rivoluzione (“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”), bensì la visita di Angelica, una scena di costume e di psicologia. Ancora una volta, si preferisce il decoro alla ferita.
Dove sono le contraddizioni del nostro tempo?
Manca l’attualità vera. Nessuna traccia su guerra, clima, migrazioni, intelligenza artificiale, identità, fragilità del pensiero democratico. Non c’è il presente come campo di battaglia, ma solo come terreno neutro di riflessione. Persino i temi in apparenza più contemporanei, come quello sull’indignazione nei social, vengono trattati in modo quasi sociologico, come se fossero già passati, già metabolizzati. Nessuna domanda scomoda, nessuna lacerazione.
E il risultato è un esame che riflette una scuola che non vuole turbare, che non vuole dividere, che teme il conflitto come se fosse un male. Una scuola che chiede di commentare, ma non di partecipare.
Un rito che non interroga più
La maturità continua così a funzionare come rito di passaggio, ma perde sempre più la sua natura di prova culturale e politica. I ragazzi devono dimostrare di saper riassumere, comprendere, riformulare. Ma raramente sono chiamati a scardinare, a decidere, a esporsi.
E viene da chiedersi se, con queste premesse, l’esame serva ancora a diventare cittadini consapevoli o se resti solo una certificazione di obbedienza formale alla buona scrittura, al buon pensiero, al buon gusto. Nel dubbio, continueremo a incollare figurine.