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Teheran, la denuncia di un medico italiano: “Cosa stanno facendo alla mia compagna e a mio figlio”

Pubblicato: 18/06/2025 14:38
Teheran medico Parma moglie figlio

È il volto umano e struggente di una crisi internazionale che si consuma lontano dai riflettori quello raccontato da Simone, medico di Parma, che da giorni tenta disperatamente di riportare a casa la compagna e il figlio, rimasti bloccati a Teheran dopo l’attacco israeliano. «Mio figlio è il più piccolo italiano bloccato a Teheran in questo momento», racconta con la voce rotta dall’ansia. Sua moglie Ava e il bambino di appena un anno e mezzo si trovano ancora in Iran, senza certezze e senza assistenza consolare.
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Il viaggio in Iran per rivedere la famiglia

Ava, nome di fantasia, era tornata nel suo Paese d’origine dopo tre anni, per far conoscere il figlio alla propria famiglia e per recuperare alcuni documenti utili alla richiesta di cittadinanza italiana. Vive in Italia da tredici anni, si è laureata nel nostro Paese e ha costruito la sua vita accanto a Simone, conosciuto a Milano nel 2018. Da allora, la coppia ha vissuto in diverse città italiane, fino a stabilirsi a Parma, dove è nato il loro bambino.

Il viaggio a Teheran era stato pianificato con largo anticipo, il biglietto comprato a maggio, molto prima che la situazione precipitasse. Il rientro era previsto a breve, ma gli eventi geopolitici hanno sconvolto ogni programma. Dopo l’attacco aereo su Teheran, la capitale iraniana è sprofondata nel caos e nell’incertezza.

Le prime ore dopo i bombardamenti

Quando è iniziata l’offensiva, Simone ha ricevuto alcuni messaggi da Ava su WhatsApp: «Stiamo tutti bene», «è morta un sacco di gente», «vorrei solo portare nostro figlio a casa». Con la città in preda al terrore, la famiglia si è rifugiata in una casa di campagna, dove ora vivono in 12 in appena 70 metri quadrati, con un solo bagno e sistemazioni di fortuna. Alcuni dormono in tenda.

Le condizioni sono estreme, e il racconto che arriva dai messaggi è allarmante. Marika, la sorella ventenne di Ava, ha avuto un crollo emotivo: «Marika è quasi svenuta oggi perché non regge più, sente che la sua vita finirà», scrive la donna in uno degli ultimi messaggi. Il panico cresce, mentre il tempo passa senza risposte da parte delle istituzioni italiane.

Il silenzio della Farnesina e la paura

Simone ha contattato la Farnesina il giorno stesso dell’attacco, venerdì 13 giugno. Inizialmente, gli operatori sembravano disponibili, ma poi è calato il silenzio. «Faccio 10 mila telefonate al giorno e non ho ancora ottenuto una risposta ufficiale», denuncia con amarezza. Tra le risposte ricevute, anche quella di un centralinista che, con impotenza, lo ha invitato a rivolgersi all’Ufficio relazioni con il pubblico.

Secondo gli ultimi aggiornamenti, circa 500 italiani si troverebbero attualmente in Iran. Ma per molti, come Simone e Ava, la sensazione è di essere abbandonati a sé stessi, senza un piano di evacuazione o un supporto concreto. Le informazioni circolano solo tramite amici, conoscenti o messaggi su app di messaggistica.

L’unica via di fuga: un pulmino verso il confine

Solo dopo giorni di attesa, Simone ha saputo che un gruppo di italiani bloccati a Teheran sta cercando di organizzare un pulmino per raggiungere il confine con l’Azerbaigian. Un viaggio di 12 ore, senza alcuna garanzia né personale consolare a bordo. Ma anche questo percorso potrebbe concludersi in un nuovo stallo: il bambino, con passaporto italiano, potrebbe ottenere un visto rapido, mentre Ava, da cittadina iraniana, rischia di dover attendere giorni per un lasciapassare.

Nonostante i pericoli, Ava ha deciso: «Parto con loro, non mi interessa, non so chi sono gli altri, so che avranno tutti il visto, io sarò l’unica iraniana, ma è l’unica opzione, non posso non andare». Le scorte alimentari si stanno esaurendo, la benzina scarseggia, e la situazione si fa insostenibile. «Mio figlio piange perché non c’è più latte. Anche i pannolini stanno finendo», racconta Simone.

Un filo di normalità tra la disperazione

Nel mezzo del dramma, la coppia prova a mantenere la normalità con piccoli gesti. In un messaggio vocale, Ava spiega a Simone come preparare il pesto alla ligure: «Devi prendere le foglie di basilico, mettile nel mixer e aggiungi olio, sale e parmigiano…». Un modo per distrarsi, per mantenere un legame con la vita quotidiana, per non cedere al panico.

Simone racconta di qualche foto ricevuta: una tenda arancione dove dormono madre e figlio, il bambino che gioca di spalle, un selfie con il sorriso tirato di Ava, una tv accesa e un messaggio: «Noi stiamo guardando un film che fa ridere, così ci tiriamo su». È l’umanità che resiste, anche sotto le bombe.

Un appello disperato per tornare a casa

La storia di Simone e Ava è emblematica di come le crisi internazionali colpiscano le persone più fragili: una madre, un padre, un bambino di appena un anno e mezzo. La lentezza delle risposte istituzionali, l’incertezza dei piani di evacuazione e la mancanza di supporto lasciano spazio solo a una grande paura.

«La mia paura è che senza il visto, una volta arrivata al confine, la rapiscano o le facciano del male», dice Simone, con una voce che mescola rabbia, amore e impotenza. Per ora, non c’è nemmeno una data certa per la partenza del pulmino. La situazione, drammatica, resta sospesa.

In mezzo a tutto questo, la domanda resta: quanto tempo ancora può resistere una famiglia abbandonata in un Paese in guerra, mentre le istituzioni tardano a intervenire?

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