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In Iran non solo macerie: ecco perché colpire l’uranio può scatenare un’altra Chernobyl. L’avvertimento dell’Aiea

Pubblicato: 20/06/2025 06:40

Le bombe non colpiscono il vuoto. E nemmeno solo cemento armato. Quando centrano un impianto nucleare — anche non operativo — si portano dietro polveri, gas, materiali radioattivi. Negli occhi delle diplomazie internazionali torna lo spettro del 1986. Ma Chernobyl, oggi, potrebbe chiamarsi Bushehr. E il rischio è reale.

Il cuore dell’allarme è nelle parole del direttore dell’Aiea, Rafael Grossi: “C’è materiale nucleare distribuito in vari luoghi dell’Iran. La possibilità di una dispersione radioattiva in atmosfera è concreta”. Un rischio che riguarda prima di tutto i siti di arricchimento, ma che potrebbe diventare catastrofico se a essere colpita fosse una centrale civile operativa.

L’ombra lunga di Bushehr, la centrale che non va toccata

Israele, al momento, ha evitato l’obiettivo. Ma la notizia — poi smentita — del bombardamento alla centrale nucleare di Bushehr, affacciata sul Golfo Persico, ha fatto tremare i mercati e preoccupato le cancellerie. L’impianto è gestito in collaborazione con la Russia, che fornisce combustibile e tecnici, e ospita un reattore da quasi un gigawatt. Il suo attacco, ha spiegato ancora Grossi, “sarebbe un disastro di proporzioni continentali”. Il motivo è semplice: è una centrale attiva, con combustibile in uso, e un’esplosione potrebbe liberare nell’ambiente quantità significative di cesio, iodio, stronzio.

Secondo James Acton, esperto del Carnegie Endowment, non ci sono “ragioni strategiche per colpirla”, e la stessa Israele rischierebbe di essere investita dalla nube radioattiva. Il rischio dunque è alto, ma lo scenario — per ora — ancora evitato.

Fordow e Natanz: i veri bersagli degli attacchi israeliani

Diverso è il discorso per i siti di arricchimento dell’uranio, veri obiettivi della campagna militare israeliana. Natanz, Isfahan, Arak: qui si lavora per trasformare l’uranio naturale in materiale per una potenziale bomba. Il processo passa attraverso l’esafluoruro di uranio (UF6), una sostanza tossica e chimicamente instabile, che viene inserita nelle centrifughe per separare l’uranio 235 da quello 238. L’obiettivo è raggiungere il 90% di arricchimento, la soglia necessaria per una testata.

L’attacco del 13 giugno a Natanz ha già provocato una contaminazione chimica e radiologica all’interno dell’impianto, confermata dall’Aiea. Grossi ha però precisato che “non si sono registrate radiazioni all’esterno”, anche perché i volumi accumulati dall’Iran sono limitati: si parla di 400 chili di uranio al 60%.

L’effetto bunker: perché i danni restano (per ora) contenuti

Uno degli elementi che limita i rischi immediati è la profondità degli impianti iraniani. Il sito di Fordow, ad esempio, si trova 100 metri sotto terra, vicino a Qom. Gli esperti internazionali, come Edwin Lyman (Union of Concerned Scientists), confermano che per colpire queste strutture servono bombe bunker buster. Ma anche se centrate, le conseguenze sono meno gravi di un’esplosione in superficie: “Il rischio di contaminazione esterna resta basso, ma non nullo”.

Lo stesso vale per l’impianto di Isfahan, dove l’uranio viene trasformato in gas esafluoruro. Una sostanza che, se rilasciata, non si disperde facilmente nell’aria per via del suo peso, ma è altamente pericolosa se inalata o ingerita. Il rischio principale in caso di attacco — spiegano gli scienziati — riguarda il personale interno e non la popolazione.

Il punto di svolta si chiama Arak: ecco perché è stato distrutto

Un capitolo a parte lo merita la centrale in costruzione di Arak, colpita e distrutta da un raid israeliano. Qui, a differenza degli altri siti, non c’era ancora materiale radioattivo. Ma secondo Alessandro Dodaro, direttore del Dipartimento Nucleare dell’Enea, proprio quell’impianto avrebbe potuto diventare cruciale per produrre plutonio per armi. L’attacco, dunque, ha colpito una struttura potenzialmente militare, ma prima che entrasse in funzione.

Tra deterrenza e panico: il confine sottile del nucleare

Il vero paradosso è che i bombardamenti — pensati per impedire la bomba — rischiano di provocare incidenti ambientali. “Non è detto che colpire Fordow sia una buona idea”, ha spiegato James Acton, “perché anche se non si tratta di un reattore, resta comunque un impianto radioattivo”.

La strategia di Israele — e degli Stati Uniti, se decideranno di unirsi — si muove dunque su una linea sottile: distruggere la capacità nucleare iraniana, senza scatenare una catastrofe radioattiva. Finora ci sono riusciti. Ma basterebbe una bomba fuori posto — o una centrale come Bushehr colpita per errore — per trasformare il Golfo in un nuovo incubo nucleare.

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