
Le tende restano al loro posto, ma gli uomini cambiano quadrante. La decisione è arrivata in silenzio, senza proclami: una ridislocazione interna del contingente italiano impegnato tra Iraq e Kuwait, pensata per garantire maggiore reattività nel nuovo scenario mediorientale. Il numero dei militari resta invariato — 1.100 uomini e donne in uniforme — ma la disposizione delle unità sul territorio è stata rivista. Non si tratta di un arretramento, ma di una nuova configurazione strategica. Un riassetto che risponde alla necessità di un posizionamento più funzionale, in grado di affrontare un contesto operativo in rapida trasformazione.
Il Medio Oriente, oggi, è un fronte instabile su più livelli. I missili che volano tra Tel Aviv e Teheran non possono non riverberarsi anche su chi, come l’Italia, presidia territori contigui in nome della stabilizzazione e della formazione militare locale. La scelta di ridistribuire le truppe in Iraq e in Kuwait ha dunque una chiara valenza operativa: accrescere la prontezza dei reparti, potenziare le capacità logistiche e garantire che ogni soldato italiano sia messo nella condizione di operare con la massima efficacia e sicurezza.

Più sicurezza con la stessa presenza
Il baricentro resta ancorato a due nomi: Erbil e Ali Al Salem. La prima è il cuore dell’azione terrestre italiana nella regione del Kurdistan iracheno; la seconda, in Kuwait, è il perno della componente aerea. Qui operano i nostri Eurofighter, i velivoli da trasporto, gli assetti per il recupero tattico e per la ricognizione. La Task Force Air e il comando terrestre si dividono un compito comune: assicurare la stabilità dell’area, sostenere le forze locali, intercettare i segnali di allarme prima che sia troppo tardi. La rimodulazione degli effettivi non comporta l’abbandono di alcuna postazione strategica: si tratta, piuttosto, di concentrare risorse dove servono di più.
La regione, infatti, è tornata ad assumere una centralità militare e geopolitica. I confini tra missione di pace, deterrenza armata e assistenza alleata si fanno sempre più sfumati. Se l’escalation tra Israele e Iran dovesse estendersi oltre i confini attuali, anche l’Iraq tornerebbe ad essere una pedina decisiva nello scacchiere. In questo quadro, il mantenimento dell’efficienza delle forze italiane assume un valore che va ben oltre il perimetro della missione originaria. I nostri reparti sono lì per addestrare, sì, ma anche per osservare, prevenire e – se necessario – proteggere.
Addestratori e garanti silenziosi
È mutato lo scopo, non l’impegno. Negli anni in cui lo Stato Islamico dettava legge, l’Italia era in prima linea nel sostegno diretto alle operazioni militari. Oggi il baricentro è cambiato: il compito principale del contingente italiano è formare e assistere le forze locali. I Carabinieri addestrano le unità di polizia irachene; gli istruttori dell’Esercito accompagnano i Peshmerga nelle esercitazioni; i piloti collaborano con gli alleati nella sorveglianza dei cieli. Ma in questo apparente ritorno alla normalità, cova un’attenzione costante: l’allerta non si è mai spenta.
La guerra tra Israele e Iran sposta equilibri, ridefinisce priorità e obbliga anche missioni “non combat” come quella italiana a rivedere logistica e dislocazione tattica. Non servono dichiarazioni ufficiali per leggere tra le righe. Una base più lontana da Baghdad può voler dire meno visibilità, ma anche più sicurezza e capacità di movimento. Un’unità spostata di pochi chilometri può significare ore guadagnate in caso di evacuazione, o di attacco. In un conflitto che può allargarsi da un giorno all’altro, ogni scelta logistica diventa scelta strategica.
Coalizione e posture flessibili
Tutti i movimenti avvengono nel perimetro di una cooperazione internazionale consolidata. L’Italia opera in Iraq nell’ambito della Coalizione anti-Daesh e della missione NATO, ma il comando nazionale mantiene piena autonomia nelle decisioni operative interne. La ridislocazione non è stata imposta né subita: è una scelta italiana, presa con l’obiettivo di continuare a onorare gli impegni assunti. Nessuna riduzione di presenza, nessun passo indietro. Al contrario, si rafforza la capacità di intervento, si garantisce una presenza più solida e coerente con le nuove necessità del teatro operativo.
Con 1.100 unità tuttora schierate, l’Italia resta tra i principali contributori alla stabilizzazione dell’Iraq. E lo fa con uno stile che è ormai cifra riconosciuta in tutte le missioni internazionali: profilo basso, efficienza alta. I militari italiani non sono chiamati a combattere una guerra, ma a impedire che una guerra torni ad esplodere dove sembrava essersi spenta. E se oggi la guerra scoppia altrove, se lo scontro tra Israele e Iran infiamma il quadrante, allora il dovere di chi presidia l’Iraq è ancora più chiaro: esserci, esserci meglio, esserci prima.