
Non c’è nulla di rivoluzionario nel dare fuoco alle bandiere dell’Unione Europea, della Nato o di Israele. Al contrario, è il gesto rituale e prevedibile di un antagonismo sterile, ripetuto negli anni da quella sinistra radicale che si dice “contro la guerra”, ma nei fatti non è mai contro chi la guerra la scatena.
Simboli in fiamme, ideali spenti
Durante la manifestazione andata in scena a Roma, promossa dai collettivi studenteschi e da Potere al Popolo, alcuni partecipanti hanno dato alle fiamme le bandiere di Israele, della Nato e perfino dell’Unione Europea, gridando “a fuoco i simboli dell’oppressione”. Il corteo, che si è mosso da piazza Vittorio Veneto verso i Fori Imperiali, si è svolto nel quadro dell’iniziativa “Disarmiamoli”, contro il riarmo occidentale.
Sul posto è intervenuta la Digos per identificare i responsabili, dopo che tra i simboli bruciati è comparso anche un cartellone con il volto di Donald Trump. Nessun incidente, nessun ferito, ma l’ennesima dimostrazione di un attivismo ideologico incapace di leggere il presente.
Il solito bersaglio sbagliato
Nel mezzo di un’epoca segnata dall’aggressione russa all’Ucraina, dai massacri perpetrati da Hamas il 7 ottobre e dalla crescente instabilità nel Medio Oriente, chi scende in piazza per “combattere la guerra” finisce sistematicamente per colpire chi cerca di contenerla. Bruciare la bandiera dell’Unione Europea in questo contesto è un atto miope e gravemente irresponsabile: significa rifiutare l’unico progetto politico pacifico nato in risposta ai totalitarismi del Novecento.
Eppure, nei cartelli degli studenti “contro tutte le guerre”, la Russia non esiste, Hamas non esiste, l’Iran non esiste. Esiste solo l’Occidente, colpevole per definizione, anche quando cerca di difendere il diritto internazionale.
Un pacifismo a senso unico
Non è un caso se queste manifestazioni accendono roghi ma spengono il pensiero critico. Il pacifismo di maniera, quello che equipara chi invade e chi si difende, chi bombarda ospedali e chi cerca di proteggere i civili, è una forma pericolosa di revisionismo morale. È la negazione del principio di responsabilità democratica che anima l’Unione Europea, e che dovrebbe invece essere il vero orizzonte delle nuove generazioni.
Bruciare la bandiera europea è anche ignorare ciò che essa rappresenta: diritti civili, libertà di espressione, pace come progetto politico e non come astrazione. È grazie all’UE che oggi centinaia di migliaia di ucraini trovano rifugio, che le ONG ricevono fondi per operare in zone di conflitto, che la diplomazia può ancora cercare una via d’uscita ai drammi della storia.
Un’Europa che disarma davvero
Se esiste oggi un soggetto internazionale che lavora per la pace reale, non retorica, quello è proprio l’Unione Europea. Una pace armata, certo, perché non si può disarmare unilateralmente mentre un vicino autoritario, nucleare e invasore – Putin – è pronto a far esplodere i confini. Ma è anche una pace fondata su regole comuni, trasparenza, mediazione.
Chi oggi combatte la NATO bruciandone la bandiera, dimentica che fu proprio l’Alleanza atlantica a fermare i massacri in Bosnia, a difendere la Lettonia e la Polonia dai ricatti energetici, a garantire stabilità in teatri dove l’ONU ha fallito. Questo non significa approvare ogni scelta occidentale, ma riconoscere che l’alternativa è il caos, non la giustizia.
Ribellarsi è giusto, ma con coscienza
C’è qualcosa di sacrosanto nella rabbia degli studenti. La solidarietà con il popolo palestinese, il rifiuto di un mondo dominato dalla forza, il desiderio di giustizia globale: sono pulsioni legittime e persino necessarie. Ma l’indignazione non basta, se non è accompagnata dalla lucidità politica.
E oggi, la lucidità politica impone una scelta chiara: stare con l’Europa nonostante i suoi limiti, difendere la democrazia anche quando costa, riconoscere che la pace non si ottiene bruciando le bandiere, ma costruendo ponti tra i popoli liberi. Il resto è solo fuoco che non illumina. Solo cenere.