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Trump apre al cambio di regime a Teheran: “Make Iran great again”

Pubblicato: 22/06/2025 23:42

Donald Trump rompe un tabù diplomatico e apre esplicitamente alla possibilità di un cambio di regime in Iran, rilanciando il suo storico slogan in una versione adattata al contesto mediorientale: “Make Iran great again”. È la prima volta, dall’inizio dell’escalation con Teheran, che il presidente americano evoca senza ambiguità la caduta del potere attuale.

Non è politicamente corretto usare il termine ‘cambio di regime’, ma se l’attuale regime iraniano non è in grado di rendere l’Iran di nuovo grande, perché non dovrebbe esserci un cambio di regime? MIGA!!!”, ha scritto Trump sui social, giocando con l’acronimo del suo celebre “MAGA” (Make America great again), trasformato per l’occasione in “MIGA”, con chiaro riferimento all’Iran.

Una svolta nella retorica americana

Fino a oggi, l’amministrazione americana aveva mantenuto un approccio ambivalente, colpendo i siti nucleari iraniani e definendo l’Iran “sponsor del terrorismo”, ma senza mai dichiarare apertamente l’obiettivo di abbattere il regime. Le parole del presidente cambiano tono e obiettivo: si passa dalla deterrenza alla strategia del rovesciamento.

Il riferimento al “non essere politicamente corretti” sembra parlare più all’opinione pubblica americana che agli alleati internazionali, mentre l’idea che l’Iran possa “tornare grande” solo senza l’attuale leadership è un messaggio diretto alle opposizioni interne iraniane, in un momento di forte instabilità per il Paese.

Il precedente del 1953

Ma l’ipotesi di un cambio di regime in Iran non è nuova per la storia americana. Già nel 1953, gli Stati Uniti, in piena Guerra Fredda, furono protagonisti insieme al Regno Unito di un colpo di stato segreto – l’Operazione Ajax – che portò alla destituzione del primo ministro democraticamente eletto Mohammad Mossadeq. Il suo “errore” fu la nazionalizzazione del petrolio iraniano, fino ad allora gestito dalla Anglo-Iranian Oil Company.

Fu allora che venne riportato al potere lo sha Mohammad Reza Pahlavi, figura autoritaria ma filo-occidentale, il cui regno durò fino alla rivoluzione islamica del 1979. Quella ferita non si è mai rimarginata nella memoria collettiva iraniana. Per questo, ogni volta che Washington parla di cambio di regime, in Iran il timore di un déjà-vu coloniale si mescola a un nazionalismo diffidente.

Dall’asse del male al giorno dell’ira

Negli anni Duemila fu George W. Bush a inserire l’Iran nell’“asse del male”, insieme a Iraq e Corea del Nord. Ma anche allora, nonostante le minacce, non si arrivò mai a un intervento diretto. L’accordo sul nucleare voluto da Obama e poi smantellato da Trump aveva rappresentato un tentativo di reintegrare l’Iran nel circuito internazionale. Oggi si torna invece al linguaggio della demonizzazione, con la differenza che ora Washington è impegnata in una guerra vera, non solo retorica.

L’attacco ai siti di Fordow, Natanz ed Esfahan ha già provocato una durissima reazione di Teheran, che minaccia il ritiro dal Trattato di non proliferazione nucleare e rilancia l’idea di una “guerra totale contro l’aggressore”. In questo contesto, le parole di Trump suonano come benzina gettata sulle fiamme.

Le incognite del dopo

L’idea che un cambio di regime possa automaticamente portare democrazia e stabilità si è già scontrata con la realtà in Iraq, Libia e Afghanistan. In Iran, un Paese con un apparato repressivo capillare e una leadership teocratica-militare, non esiste un’opposizione pronta a prendere il potere con legittimazione interna e riconoscimento internazionale. Qualsiasi vuoto politico rischierebbe di essere colmato da una guerra civile o da nuovi attori armati.

Il richiamo al “Make Iran great again” sembra dunque più una provocazione propagandistica che un piano strategico. Ma nel momento in cui viene pronunciata da chi ha appena ordinato bombardamenti chirurgici su infrastrutture sensibili, si trasforma in un messaggio inquietante: non ci fermeremo qui.

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