
Mentre il mondo trattiene il fiato davanti all’ennesima escalation tra Israele e Iran, il ritorno di Donald Trump sulla scena internazionale riapre una domanda fondamentale: come sarebbe stato gestito questo scenario sotto l’amministrazione Obama?
La risposta non è solo un esercizio di geopolitica speculativa, ma una riflessione essenziale sul significato stesso di potere e leadership globale.
L’asse Washington-Tel Aviv e l’ira di Teheran
Negli ultimi mesi, le tensioni tra Israele e Iran sono passate da schermaglie diplomatiche e operazioni coperte a veri e propri atti bellici. L’intervento diretto degli Stati Uniti, questa volta per volontà di Trump, segna una svolta drammatica: la guerra non è più uno spettro, ma una concreta possibilità. Eppure, la storia recente ci offre un punto di confronto nitido: la presidenza di Barack Obama.
Obama e Trump rappresentano due paradigmi opposti nel modo in cui gli Stati Uniti percepiscono e utilizzano il loro potere. Non è solo questione di stile: è una divergenza strategica profonda, quasi ideologica.

Trump: la forza prima di tutto
Per Donald Trump, la politica estera è uno strumento di potere immediato, diretto, privo di sottotesti. L’uscita unilaterale dal JCPOA nel 2018 non è stato un incidente diplomatico, ma un messaggio preciso: gli Stati Uniti non riconoscono legittimità all’Iran come interlocutore. Il raid del gennaio 2020, in cui venne ucciso il generale Qassem Soleimani, fu l’emblema della dottrina trumpiana: deterrenza attraverso l’escalation.
Nel contesto attuale, con Israele impegnato in un confronto aperto con Teheran, Trump ha risposto come ci si poteva aspettare: con l’attacco. Nessuna consultazione multilaterale, nessun passaggio per le Nazioni Unite, nessuna pausa diplomatica. Solo fuoco. La logica è semplice e brutale: colpire per non essere colpiti, umiliare il nemico per imporre la pace.
Ma questa strategia, per quanto coerente con il personaggio, apre interrogativi inquietanti. È sostenibile nel lungo periodo? Cosa accade se l’Iran risponde con una controffensiva regionale? E, soprattutto: fino a che punto Washington è disposta a spingersi per proteggere Israele?
Obama: il realismo strategico e l’arte dell’equilibrio
Barack Obama ha sempre interpretato il ruolo dell’America nel mondo in termini di responsabilità globale, non di dominazione. La sua presidenza fu segnata dalla volontà di ridurre l’interventismo militare diretto, evitando nuovi “boots on the ground” dopo le ferite aperte dell’Iraq e dell’Afghanistan. In questo quadro si colloca la firma dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015, uno dei pilastri della sua visione: controllare il nemico, non distruggerlo.
È plausibile che, di fronte a uno scontro Israele-Iran, Obama avrebbe agito diversamente da Trump. Probabilmente avrebbe tentato di dissuadere Israele da operazioni troppo rischiose, pur garantendo il suo sostegno strategico. Avrebbe mobilitato gli alleati europei, convocato vertici diplomatici, sondato la Cina e la Russia per evitare l’allargamento del conflitto. E solo in caso di attacco diretto a obiettivi americani – o a Israele in maniera devastante – avrebbe valutato un intervento militare, sempre con il supporto di una coalizione internazionale.
La forza di Obama stava nella gestione del tempo geopolitico: rallentare le crisi per poterle controllare, trasformare il caos in margine negoziale. Non sempre ci è riuscito, certo – basti pensare alla Siria – ma la sua logica era quella della prudenza strategica, non della reazione impulsiva.

Due visioni, due Americhe
Quella di Trump è un’America isolazionista nei patti ma interventista nella forza: agisce da sola, senza preoccuparsi del consenso globale. Quella di Obama era multilaterale nei metodi ma selettiva nell’azione: costruiva alleanze, non coalizioni di bombardamenti. La differenza, in fondo, è tra chi crede nella diplomazia come forza e chi crede nella forza come unica diplomazia.
Questa divergenza non è solo una questione di preferenze politiche, ma di visione del mondo. Trump guarda alla politica internazionale come a un’arena darwiniana, dove vince chi colpisce per primo. Obama la interpreta come una partita a scacchi, dove ogni mossa affrettata può costare lo scacco matto.
E oggi? Il rischio di una crisi fuori controllo
Nel momento in cui gli Stati Uniti si schierano militarmente accanto a Israele contro l’Iran, si riapre un dilemma storico: può una superpotenza mantenere il suo ruolo globale senza finire intrappolata in conflitti infiniti?
Obama avrebbe risposto con un “no” secco e razionale: avrebbe cercato di contenere la crisi, non di cavalcarla. Trump, al contrario, pare determinato a risolvere il conflitto con la forza del fuoco, a costo di incendiare l’intero scacchiere mediorientale.
Il mondo, oggi, non ha bisogno di un’altra guerra. Ha bisogno di leadership capaci di pensare oltre la prossima esplosione. E forse, su questo punto, anche i più critici nei confronti di Obama potrebbero riconsiderarne la lucidità strategica.