
L’attacco statunitense della scorsa notte rischia di riscrivere completamente le dinamiche del conflitto tra Israele e Iran. Mentre le bombe americane cadevano su obiettivi strategici, l’effetto collaterale è esploso nelle strade della capitale iraniana: non in forma di paura o resa, ma di orgoglio ferito e sete di vendetta.
Invece di indebolire il regime, le fiamme della rivolta si sono rovesciate contro l’Occidente, e in particolare contro Israele. Un capovolgimento che getta sabbia negli ingranaggi della strategia israeliana e mette Benjamin Netanyahu in una posizione delicata, quasi imbarazzante.
Netanyahu, la guerra e l’illusione della rivolta
All’indomani dello scoppio del conflitto, il primo ministro israeliano aveva scelto la via della comunicazione diretta. Un video, diffuso in farsi con sottotitoli, mostrava Netanyahu rivolgersi non ai generali o ai pasdaran, ma agli iraniani comuni: «I nemici non siete voi. Ribellatevi al regime». Non era un appello retorico. Era parte di una precisa strategia di guerra psicologica: alimentare la frattura tra popolo e potere, scatenare una crisi interna che potesse paralizzare l’apparato militare iraniano dall’interno. L’obiettivo? Trasformare una guerra convenzionale in una crisi civile e, in ultima analisi, rompere il fronte interno della Repubblica Islamica.
Una strategia azzardata, ma non priva di precedenti storici. Israele puntava tutto sul logoramento progressivo del sistema iraniano, fidando sulla stanchezza della popolazione, già fiaccata da anni di sanzioni, corruzione e repressione. L’idea era chiara: se il regime cade dall’interno, la guerra finisce prima di diventare regionale.

L’America rompe l’incantesimo
Poi è arrivato l’attacco americano. Violento, improvviso, muscolare. Una mossa in puro stile Trump: colpire forte per mostrare chi comanda, senza preoccuparsi troppo del contesto geopolitico o delle strategie sottili dell’alleato israeliano. Il risultato è stato immediato e devastante sul piano politico: a Teheran, la popolazione non ha colto il messaggio di Netanyahu. Ha sentito solo il suono delle bombe americane.
Le immagini arrivate mostrano folle oceaniche nelle piazze, non per protestare contro Khamenei, ma per giurare fedeltà alla nazione e vendetta contro l’aggressore. Donne e uomini con cartelli che gridano vendetta. Volti in lacrime, pugni alzati. L’onda nazionalista ha seppellito sul nascere ogni possibilità di sollevazione interna. L’identificazione con il regime – pur fragile – si è rinsaldata nel nome dell’orgoglio ferito. In un Paese dove la memoria della guerra con l’Iraq è ancora viva, le bombe straniere sono sempre il collante più efficace tra Stato e cittadini.

Netanyahu isolato, Israele esposto
Per Netanyahu, questo scenario rappresenta un doppio disastro. Primo: la guerra civile che sperava di innescare è scomparsa sotto le macerie lasciate dai missili americani. Secondo: Israele ora appare, agli occhi degli iraniani, come il mandante morale – se non materiale – dell’attacco. Poco importa che sia stato Trump a dare l’ordine. Nella narrazione che si diffonde sui media iraniani, l’America ha agito per conto dell’“entità sionista”, come ancora viene chiamato lo Stato ebraico nei discorsi ufficiali a Teheran. Il risultato è che Israele ha perso l’arma della guerra psicologica e ha guadagnato milioni di nuovi nemici.
Non è la prima volta che l’imprevedibilità di Trump crea problemi agli alleati. Ma mai come questa volta le conseguenze rischiano di essere esplosive. Il presidente americano ha probabilmente cercato di rafforzare la sua leadership internazionale, cavalcando la logica del “presidente in guerra” che ha già funzionato in passato. Ma in Medio Oriente ogni mossa ha un prezzo. E questo attacco potrebbe costare carissimo: non solo in termini di escalation militare, ma anche nella capacità di influenzare l’opinione pubblica nei Paesi nemici. Israele, che aveva scelto l’arma dell’astuzia e del logoramento, si ritrova ora schiacciato tra due fuochi: un Iran che si compatta e un alleato che spara prima di pensare.