
C’è qualcosa di insopportabile nella voce querula con cui l’Europa commenta ogni crisi globale. Ogni volta che un evento tragico scuote il mondo – che sia l’attacco americano all’Iran, l’avanzata russa in Ucraina o un ultimatum israeliano – la reazione europea è sempre la stessa: stupore, preoccupazione, richieste di moderazione. Ma mai potere. Mai azione. Mai responsabilità.
Eppure questa è la stessa Europa che per secoli ha plasmato il mondo. Dall’Impero romano che per primo ha concepito un ordine giuridico universale, al Sacro Romano Impero che ha tentato di ricucire spiritualmente l’Occidente, fino all’epoca degli Stati nazionali, delle rivoluzioni, delle costituzioni. L’Europa è stata culla di civiltà, laboratorio di idee, forgia di popoli. E in parte lo è ancora: modello di diritti, di qualità della vita, di cultura. Ma è un gigante culturale senza scudo. Una potenza spirituale senza muscoli.
L’accordo Nato e l’illusione europea
Nelle stesse ore in cui gli Stati Uniti colpivano tre siti nucleari iraniani, e Teheran minacciava ritorsioni su scala regionale, a Bruxelles si discuteva ancora se l’Europa dovesse “farsi sentire di più”. Ma per farsi sentire bisogna esistere. E per esistere nel XXI secolo servono difesa, innovazione, capacità di intervento. Tutto quello che ancora non abbiamo.
L’intesa raggiunta nelle ultime ore all’interno della Nato per portare al 5% la spesa globale destinata a difesa e sicurezza – dopo il veto spagnolo superato con un compromesso – è un passo importante. Ma ancora una volta l’Europa si accoda, si adatta, si ritaglia uno spazio dentro una logica altrui. L’Italia, come altri partner, ha raggiunto il 2% del PIL solo contando nel computo forze di polizia e satelliti a uso duale. Ma dov’è l’esercito europeo? Dov’è la politica estera comune? Dov’è il comando integrato capace di prendere decisioni senza dover aspettare Washington?
L’Europa è sempre lì, a metà del guado: vuole la protezione americana, ma senza dipendenza; sogna autonomia, ma senza pagarne il prezzo. E così resta irrilevante. Una potenza amministrativa, non strategica. Una comunità di regole, non di forza. Un continente che sa cosa non vuole essere, ma non ha mai deciso cosa diventare.
Difesa comune. Ora o mai più
Essere europei non significa difendere un’identità astratta, ma costruire una potenza politica reale. L’unico modo per farlo è creare finalmente una difesa comune, un esercito europeo integrato, e una politica estera unica. Significa decidere insieme quando, come e perché intervenire. Significa parlare con una voce sola, in un mondo che non ascolta più le armonie del passato.
È una scelta politica, ma anche morale: perché non c’è libertà senza sicurezza, e non c’è sicurezza senza deterrenza. Chi crede che la forza sia un disvalore ha smesso di capire la storia. La guerra non si sceglie: accade. E quando accade, bisogna esserci. Essere in grado di reagire, difendere, prevenire. La pace si costruisce, ma non si mendica.
Non c’è niente di più profondamente europeo della consapevolezza storica. Ma la storia non è solo patrimonio da custodire: è responsabilità da rinnovare. Siamo i figli dell’Atene democratica e del diritto romano, di Dante e di Kant, della Magna Carta e della Resistenza. Ma chi non si difende, non trasmette. E chi non trasmette, scompare.
Basta piagnistei strategici
Continuare a lamentarsi del proprio ruolo marginale senza affrontare le cause reali di questa marginalità è un esercizio di infantilismo geopolitico. Se l’Europa vuole contare, deve scegliere di diventare grande. Se non lo vuole, abbia almeno il coraggio di tacere, e non trasformi ogni crisi in un’occasione per ribadire la propria irrilevanza.
L’alternativa è chiara: difesa comune, politica estera comune, scelte condivise, investimenti veri. Non proclami. Non rinvii. Non alibi. O ci decidiamo a esistere, oppure il mondo continuerà a decidere al nostro posto.
Non si eredita l’essere una civiltà. Bisogna decidere di esserlo, ogni giorno. Anche con la forza, se necessario.