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La tregua tra Iran e Israele non è pace. È solo il primo round di un confronto globale

Pubblicato: 24/06/2025 09:33

La tregua tra Iran e Israele è cominciata, ma non è una pace. Dopo dodici giorni di bombardamenti, centinaia di missili, vittime civili da entrambe le parti e un coinvolgimento militare diretto degli Stati Uniti, il cessate il fuoco è stato annunciato dal presidente americano Donald Trump come “totale e conclusivo”. Ma nella realtà strategica del Medio Oriente e degli equilibri internazionali, non si è concluso nulla. È solo cominciata un’altra fase.

La guerra tra i due Paesi ha rotto uno degli ultimi tabù geopolitici: Israele ha colpito direttamente l’Iran sul suo territorio, e Teheran ha risposto attaccando anche una base americana. Nessuno può più fingere che ci sia un equilibrio. C’è stato un confronto diretto tra due potenze regionali con ambizioni globali, sostenute da alleati che guardano a Washington, Mosca e Pechino. È stato il primo round. Non l’ultimo.

Una tregua fragile, senza garanzie

L’accordo è informale, non scritto, privo di mediazione formale. È stato raggiunto attraverso canali indiretti, con Qatar e Stati Uniti come facilitatori, e con il silenzioso assenso di Russia e Cina. Prevede che Israele sospenda i raid sui siti militari e nucleari iraniani, mentre l’Iran blocchi i lanci di missili e droni verso città e basi israeliane. Nessuna clausola vincolante, nessun meccanismo di verifica.

Per Teheran si tratta di una sospensione tattica, da usare per consolidare il potere interno e ricostruire ciò che è stato distrutto. Per Israele è un momento di respiro, dopo aver ottenuto risultati militari rilevanti: la distruzione di almeno tre siti strategici per l’arricchimento dell’uranio e l’eliminazione di alcune figure chiave del programma nucleare iraniano. Ma l’equilibrio è apparente, e tutti lo sanno.

Israele ha colpito, ma non ha isolato l’Iran

Da un punto di vista militare, Israele ha vinto questa battaglia. Ha dimostrato di poter colpire nel cuore dell’Iran, usando armi avanzate, intelligence precisa, e con l’appoggio americano. Ha costretto il nemico a mostrare la propria vulnerabilità. Ma non ha ottenuto una resa. E soprattutto non ha spezzato la rete di alleanze su cui si regge il regime degli ayatollah.

Russia e Cina hanno difeso la posizione iraniana, condannando l’azione israeliana e rilanciando l’idea di una conferenza multilaterale sulla sicurezza regionale. Non è solidarietà ideologica, ma calcolo strategico: l’Iran è una carta fondamentale nel grande gioco della pressione su Washington. Se Teheran viene umiliata, perde anche Mosca. Se Israele vince troppo, Pechino perde un alleato anti-occidentale. La guerra ha creato uno squilibrio, e ora tutti si muovono per riequilibrarlo.

Washington ha gestito la crisi, ma il prezzo è alto

Gli Stati Uniti hanno guidato la tregua, dopo aver tollerato e sostenuto l’attacco israeliano. L’amministrazione Trump ha giocato una partita rischiosa: da una parte il via libera alla distruzione dei siti nucleari, dall’altra la mediazione finale per fermare l’escalation. Obiettivo raggiunto, almeno in apparenza: l’Iran è stato indebolito, Israele non è stato travolto, e l’America si presenta come l’unico arbitro efficace in Medio Oriente.

Ma a che prezzo? La credibilità multilaterale degli Stati Uniti è stata minata, soprattutto in Europa, dove l’operazione è apparsa come un’iniziativa unilaterale mascherata da difesa. La Cina e la Russia hanno già rilanciato la narrativa del “doppiopesismo occidentale”. E anche alcuni Paesi arabi, che avevano avviato processi di normalizzazione con Israele, oggi frenano. Il danno d’immagine non è banale.

Il regime iraniano ha subito un colpo durissimo, ma non è in ginocchio. I missili sono partiti lo stesso. Le basi americane sono state minacciate. E le immagini della fuga dei civili da Teheran, pur drammatiche, sono già rielaborate dalla propaganda come prova di resistenza. Teheran non cercherà il negoziato da una posizione di debolezza. Proverà invece a ricostruire il proprio potenziale militare e a rilanciare il confronto in altri scenari: Yemen, Siria, Libano, Golfo.

Inoltre, è tornata sul tavolo la possibilità che l’Iran abbandoni definitivamente il Trattato di non proliferazione nucleare. Non è una decisione imminente, ma il messaggio è chiaro: se il diritto internazionale non lo protegge, allora non ha senso rispettarlo. È una minaccia diplomatica, ma non va sottovalutata. Soprattutto se il confronto si sposta sul fronte tecnologico o energetico.

Il Medio Oriente resta la faglia più pericolosa del mondo

Questa tregua mostra ancora una volta che il Medio Oriente non è più al centro della geopolitica, ma è ancora il cuore della sua instabilità. Ogni esplosione a Natanz o Be’er Sheva si riflette sulle borse mondiali. Ogni silenzio improvviso nei cieli sopra Haifa o Esfahan viene interpretato come il segnale di una nuova crisi imminente. I prezzi del petrolio si sono mossi con ogni tweet, e gli analisti non escludono una nuova corsa agli armamenti regionali.

I Paesi del Golfo sono in allarme, le cancellerie europee lavorano a una fragile architettura diplomatica, la Cina propone una sua mediazione, la Russia offre “protezione sovrana” all’Iran. Nessuno vuole un nuovo conflitto. Ma nessuno può garantire che questa tregua duri più di qualche settimana.

Una pace vera richiederebbe un salto politico

Il punto è che nessuna delle questioni strutturali è stata risolta. Il programma nucleare iraniano è solo temporaneamente disattivato, non smantellato. Le milizie sciite legate a Teheran restano attive. Il Libano è sospeso. Gaza è ancora sotto assedio. E Israele, pur uscito rafforzato, non ha alcun progetto strategico per la stabilizzazione regionale.

Una vera pace dovrebbe passare per un nuovo accordo multilaterale, che includa sicurezza per Israele, garanzie per l’Iran, disarmo controllato, fine delle interferenze per procura. Ma oggi questo non è all’orizzonte. Per ora c’è solo una tregua, tenuta insieme da un equilibrio del terrore. Basta un drone, un missile fuori traiettoria, una dichiarazione sbagliata a farla saltare.

L’Europa osserva, ma non incide

In tutto questo, l’Unione Europea resta spettatrice disarmata. Pur sostenendo il cessate il fuoco, Bruxelles non ha giocato alcun ruolo decisivo né nell’escalation né nella sua interruzione. Francia e Germania si sono limitate a dichiarazioni di principio. L’Italia ha sposato la linea della de-escalation ma senza proporre strumenti. Ancora una volta, l’assenza di una politica estera e di difesa comune ha reso l’Europa irrilevante in una crisi che minaccia direttamente i suoi interessi economici, energetici e di sicurezza.

Se la guerra avesse coinvolto lo Stretto di Hormuz o causato una crisi atomica, sarebbe stata l’Europa a pagarne le conseguenze più pesanti, senza poter fare nulla per evitarlo. Anche per questo il dibattito interno all’Unione è destinato a intensificarsi: la tregua riapre la discussione sulla necessità di una forza europea credibile, capace di proteggere gli interessi del continente senza dover attendere le decisioni della Casa Bianca o i veti incrociati a Mosca e Pechino.

Il silenzio tra due tempeste

La tregua tra Iran e Israele è un silenzio forzato tra due tempeste. Tutti gli attori coinvolti — regionali e globali — hanno accettato di fermarsi non per convinzione, ma per calcolo. Non c’è un progetto di pace, non c’è una nuova architettura di sicurezza. Solo un congelamento momentaneo delle ostilità, ottenuto dopo una dimostrazione brutale di forza.

Il rischio è che questo cessate il fuoco venga interpretato come una vittoria da entrambe le parti. Israele ritiene di aver imposto il suo deterrente, l’Iran di aver risposto senza cedere. Ma se entrambi si sentono rafforzati, il confronto non è risolto: è rinviato. E se ogni tregua diventa una prova generale della prossima guerra, allora la tregua stessa smette di essere uno strumento di pace.

Il Medio Oriente, ancora una volta, si conferma teatro e specchio del disordine globale. E l’Europa, ancora una volta, resta a guardare.

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Ultimo Aggiornamento: 24/06/2025 09:34

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