
Una guerra-lampo, apparentemente devastante, ma forse solo teatralmente necessaria. Il bilancio della cosiddetta Guerra dei 12 giorni si legge oggi attraverso una lente che non riguarda più le esplosioni, ma le telefonate. Non i danni sul campo, ma i silenzi diplomatici e i bluff calcolati. E se tutto fosse stato organizzato per tempo, con un copione scritto a più mani e recitato nei bunker della sicurezza nazionale?
L’accordo tra Iran e Israele, sancito da un cessate il fuoco pilotato da Washington, mediato da Doha e digerito da Teheran, è il risultato di un equilibrio delicatissimo: tutti dovevano salvarsi la faccia, nessuno poteva perdere davvero.
L’operazione Al Udeid e il “sì” preventivo di Trump
Il momento chiave si consuma domenica mattina, quando gli Stati Uniti colpiscono i tre principali impianti nucleari iraniani. È la svolta: Trump ottiene il suo obiettivo simbolico – dimostrare forza – ma da quel momento cerca una via d’uscita ordinata, anche perché le elezioni presidenziali incombono e un conflitto prolungato è uno scenario ingestibile.

Per questo l’inviato speciale Steve Witkoff si attiva su due fronti paralleli: Tel Aviv e Teheran. Con Israele il dialogo è teso. Il presidente Trump – raccontano le fonti – è costretto a telefonare di persona a Netanyahu per imporgli di non rilanciare, fermando gli aerei da guerra già in volo. È il segnale che le ostilità devono rientrare nei binari dell’accordo preparato.
L’Iran sceglie la base giusta: simbolo americano, suolo qatariota
Nel frattempo l’Iran finge una rappresaglia. Ma non è una vera risposta: è un messaggio. La scelta di colpire la base di al Udeid – quartier generale del Central Command – è infatti estremamente studiata. Il bersaglio è simbolico, ma la posizione è strategica: si trova in Qatar, il Paese che più di ogni altro ha mantenuto rapporti fluidi con Teheran. E proprio da Doha parte la mossa finale.
L’emiro Al Thani, da mesi impegnato in triangolazioni con Usa, Israele e Iran per la crisi di Gaza, comprende che è il momento di agire. Avvertito in anticipo dei missili iraniani – così come lo stesso Trump – acconsente all’attacco controllato. Nessuna vittima, danni minimi, nessuna escalation.
Il ruolo di Al Thani e le spinte italiane
Il giorno dopo, lunedì mattina, Teheran riunisce il suo Consiglio supremo per la sicurezza nazionale. Khamenei ha ordinato una risposta, ma il messaggio è chiaro: niente vittime americane. La scelta del bersaglio è coerente con questo principio. L’Iran vuole colpire senza coinvolgere, rievocando il modello Soleimani: dimostrazione di forza senza rischio di guerra totale.

Al Thani gioca allora l’ultima carta. In pubblico, convoca l’ambasciatore iraniano per condannare il gesto. In privato, invece, chiede agli ayatollah di accettare la tregua proposta da Trump, descrivendola come un’occasione irripetibile. Anche l’Italia invia messaggi simili, contribuendo a far pendere la bilancia verso l’intesa.
Una tregua per tre vincitori (e un perdente)
Il risultato è una tregua che permette a tutti di dichiararsi vincitori. Netanyahu può dire di aver indebolito l’Iran. Trump annuncia la distruzione del programma nucleare. Khamenei rivendica la resistenza dell’Islam sciita ai nemici storici. E in effetti, il regime di Teheran sopravvive con i suoi asset intatti, mantiene parte dell’uranio arricchito e conserva la possibilità di riprendere la corsa all’atomica.
Il grande perdente, forse, è solo uno: la verità geopolitica. Perché se tutto si è svolto secondo un piano, allora il conflitto non è stato un’escalation inaspettata, ma un episodio di guerra simulata, pensato per consolidare il potere dei leader coinvolti e chiudere un capitolo prima che diventasse troppo pericoloso.
A meno che – e qui il condizionale resta d’obbligo – il Qatar non riesca davvero a trasformare questa tregua in un negoziato duraturo. Con buona pace dei missili, delle basi e dei proclami.