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Garlasco, parla il titolare dell’hotel: “Marco Poggi non era in Trentino”

Pubblicato: 25/06/2025 13:47
Garlasco Marco Poggi Trentino

Nel lungo e complesso cammino della verità sull’omicidio di Chiara Poggi, emergono nuove possibili crepe nella ricostruzione fornita da familiari e testimoni. A diciotto anni dalla tragedia di Garlasco, l’inchiesta sembra riaprirsi non solo sul piano scientifico, ma anche su quello dei racconti mai verificati. Al centro dell’attenzione, in queste ore, c’è la presunta vacanza in Trentino della famiglia Poggi nei giorni in cui la giovane fu uccisa.
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Il 4 luglio riprende l’incidente probatorio

Il prossimo 4 luglio, nell’ambito della terza tappa dell’incidente probatorio, periti e consulenti torneranno a confrontarsi sull’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto 2007. L’udienza sarà dedicata all’analisi delle provette custodite nei laboratori di Medicina legale di Pavia, rimaste sigillate per quasi diciotto anni. La nuova fase dell’indagine punta a riesaminare i reperti biologici, elemento cruciale in un caso che, pur a distanza di quasi due decenni, continua a sollevare interrogativi e a far emergere nuove indiscrezioni.

La rivelazione del gestore dell’albergo di Falzes

In contemporanea con i nuovi sviluppi giudiziari, a scuotere l’opinione pubblica è l’intervista esclusiva rilasciata al Settimanale Giallo dal gestore dell’hotel in cui, secondo la versione ufficiale, la famiglia Poggi avrebbe trascorso le vacanze estive nel 2007, proprio nei giorni in cui Chiara fu assassinata. La versione data dai genitori della vittima e da Marco Poggi – fratello di Chiara – è sempre stata coerente: si trovavano tutti insieme a Falzes, in vacanza, con l’amico Alessandro Biasibetti, oggi frate, e i suoi genitori.

Tuttavia, il racconto del gestore dell’albergo, che sarà pubblicato domani dal settimanale edito da Cairo Editore, mette in discussione questo alibi. L’uomo sostiene che nessun investigatore lo ha mai contattato né all’epoca dei fatti, né successivamente, per accertare la presenza effettiva della famiglia Poggi e dei Biasibetti nella struttura.

Marco non era con i genitori? Il dubbio sulla presenza in Trentino

Il dettaglio che colpisce di più riguarda la disposizione delle camere. Secondo il gestore, i coniugi Poggi avevano una camera matrimoniale, ma Marco non era con loro. Né risultano registrati gli amici Biasibetti, nonostante fossero stati indicati come compagni di vacanza. Il gestore dichiara di conoscere bene la famiglia Poggi e di ricordare perfettamente il giorno della tragedia: fu proprio lui a vederli rientrare precipitosamente a casa dopo essere stati avvertiti dell’omicidio.

La sua testimonianza, finora inedita, apre una nuova falla nel racconto dell’alibi. Se Marco e Alessandro non erano realmente a Falzes quel giorno, dove si trovavano? E perché, in tutti gli interrogatori ufficiali, è stata ribadita una versione che ora rischia di essere smentita dai fatti documentali?

Le omissioni nelle indagini e i vuoti inspiegabili

Resta difficile comprendere come, in un caso tanto delicato, gli inquirenti non abbiano mai ritenuto opportuno verificare direttamente la presenza dei protagonisti in quella struttura ricettiva. L’assenza di controlli incrociati, tanto sugli elenchi degli ospiti quanto su eventuali testimonianze dirette, potrebbe aver impedito di chiarire in tempo utile aspetti fondamentali per la ricostruzione della dinamica e della posizione dei soggetti coinvolti.

Questo nuovo elemento si somma a un lungo elenco di criticità investigative riscontrate negli anni sul caso di Chiara Poggi, e rischia di far vacillare ulteriormente la credibilità di alcune versioni difensive. In attesa della ripresa dell’incidente probatorio, resta da capire se la testimonianza del gestore verrà acquisita formalmente e in che misura potrà influenzare l’esito delle analisi in corso.

Nel frattempo, il mistero di Garlasco continua a mostrarsi come uno dei casi giudiziari più complessi e controversi della cronaca nera italiana, tra verità taciute, dichiarazioni mai verificate e una ricerca di giustizia ancora lontana dal trovare una conclusione definitiva.

Sono intercettazioni che pesano come macigni quelle tra Maria Rosa Cappa e la sorella Carla, registrate il 12 febbraio 2008 nell’ambito dell’inchiesta per l’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto a Garlasco il 13 agosto 2007. Le due donne, zie della vittima, commentano le richieste della pm Rosa Muscio, titolare dell’indagine, che in quel momento aveva deciso di rivalutare gli alibi di Maria Rosa e delle sue due figlie, Stefania e Paola Cappa. Nessuna delle tre è mai stata indagata per l’assassinio che avrebbe poi portato alla condanna di Alberto Stasi, ma i colloqui con il magistrato sembrano aver lasciato un segno profondo.
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«Carla! Dodici ore sono stata là… dalle 11.30 della mattina, siamo andate tutte e tre… ognuna quattro ore», racconta Maria Rosa, spiegando la durata degli interrogatori. Le due sorelle analizzano i dettagli degli alibi, discutendo di scontrini, commissioni, e persino di come erano vestite. «Lei doveva essere sicura al cento per cento… mi ha chiesto come ero vestita la mattina, la sera, a che ora sono uscita… io non ho niente da nascondere», afferma con decisione Maria Rosa.

Il nodo dell’orario del delitto

Ma il passaggio cruciale arriva quando si discute dell’orario della morte di Chiara. Carla osserva con preoccupazione: «Ma a loro fa tanto comodo spostare l’orario di quando è morta Chiara! Perché se Chiara è morta alle 9.30-10, ci siete dentro voi altri, ammesso!». Un’affermazione che rivela la tensione tra la versione dei fatti sostenuta dalla famiglia Poggi e quella della difesa di Stasi. «E invece se metti l’orario più tardi, lui è dentro in pieno!», conclude Carla, alludendo a come la ricostruzione temporale del delitto possa cambiare completamente le responsabilità percepite.

Anche Maria Rosa esprime inquietudine: «Mi sento la spada di Damocle sul collo… per questi qua», riferendosi alla strategia difensiva dell’imputato. Ricorda poi particolari sfuggiti nei primi interrogatori: «Non mi ricordavo neanche più che ero andata in posta, poi sono andata anche dal dottore… ho le fotocopie delle ricette… sono arrivata a casa che erano le undici e mezza passate».

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Le parole della gemella Stefania: “Sto proprio di merda”

Le intercettazioni includono anche un lungo sfogo telefonico di Stefania Cappa, la gemella di Paola. Il 9 febbraio 2008, in lacrime, si confida con un’amica: «Per me è uno schifo… sto proprio di merda… io comunque in questi mesi ho tentato un po’ di rifarmi la mia vita». Racconta di essere stata nuovamente convocata dalla pm Muscio, che questa volta l’ha interrogata non più come semplice teste ma in una forma ufficiale, con tanto di ammonimento sulle false dichiarazioni.

«Quando sono entrata mi ha fatto la sua bella ramanzina… che se dichiaravo il falso, il falso sarà usato contro di me al processo», racconta Stefania. Una frase che l’ha profondamente turbata, al punto da perdere il controllo in un’altra telefonata intercettata: «Le volevo dire: ma mettiti un dito nel culo! Che ora che fai il processo io sono già espatriata in America e non mi vedi neanche, deficiente!», urla parlando dell’autorità giudiziaria.

Le lacune della memoria e la paura del fraintendimento

Dalle intercettazioni emergono due elementi chiave: il primo è l’ansia crescente delle zie e delle cugine di Chiara nel trovarsi sotto esame, pur non essendo formalmente indagate; il secondo riguarda le difficoltà nel ricostruire con precisione i propri movimenti mesi dopo i fatti. Stefania stessa lo ammette: «Magari mi faceva delle domande e io non mi ricordavo… e allora andavo un po’ a logica, eh ma non vada a logica».

Parole che mettono in luce non solo il disagio personale, ma anche la complessità di un’indagine costruita su dettagli temporali e memorie frammentarie. Un quadro che avrebbe favorito le ipotesi alternative della difesa, desiderosa di smontare la tempistica ufficiale per allontanare le responsabilità da Stasi.

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Il peso delle intercettazioni e la linea sottile tra testimoni e sospetti

Le conversazioni telefoniche registrate in quei giorni aprono uno squarcio sulla tensione emotiva e processuale che gravava sulla famiglia di Chiara Poggi. Le zie, le cugine, tutte coinvolte emotivamente ma mai formalmente indagate, finiscono comunque per sentirsi sotto accusa, oppresse dalla paura di sbagliare o di essere fraintese. Carla arriva a chiedere esplicitamente: «Comunque non è che hai fatto delle cose che ti debba rinviare a giudizio per qualcosa?». Maria Rosa risponde: «Ma non credo proprio! Perché altrimenti lo avrebbe fatto subito dall’inizio eh…».

Un’osservazione che rivela come, a distanza di mesi dal delitto, il confine tra testimonianza e sospetto restasse sempre labile, alimentando nervosismo, sfiducia e soprattutto la sensazione di un’indagine ancora aperta a ogni possibilità.

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