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L’illusione della protezione e la verità dell’impotenza: cosa dice davvero la dipendenza militare dell’Europa dagli Stati Uniti

Pubblicato: 25/06/2025 08:55

Nessun popolo libero può delegare la propria sopravvivenza. Nessuna civiltà autonoma può esistere se non si assume la responsabilità della forza che la protegge. Nessuna alleanza è davvero paritaria se uno solo dei partner impugna le armi per tutti. L’Europa di oggi, crocevia della storia e culla di ogni pensiero, ha smesso da decenni di essere questo: un’entità capace di decidere e difendere. E da allora ha smesso anche, in fondo, di essere sovrana.

Nel mondo reale, la politica estera comincia e finisce con la potenza militare. E dove non c’è potenza, non c’è politica, ma solo conseguenza. È questa la condizione dell’Unione Europea: un gigante economico costretto a parlare sottovoce nei consessi internazionali, perché non ha il diritto — né la capacità — di alzare il tono. Se ti fai difendere da qualcuno, sei sempre e comunque colonia. Non importa quanti trattati firmi, quanti tavoli negozi ad alta voce o quante bandiere issi sopra le tue istituzioni. Se non hai un esercito autonomo, sei terra protetta. E ogni terra protetta è, prima o poi, terra sottomessa.

Una difesa delegata è una sovranità mutilata

L’Alleanza Atlantica, con i suoi riti e le sue basi, è da oltre settant’anni il guscio dentro cui l’Europa si è rinchiusa per non affrontare il trauma della storia. Dopo Hiroshima e dopo Berlino, l’Occidente europeo ha scelto di delegare la violenza. Di fare della pace una dottrina, della diplomazia una bandiera, e dell’America una madre potente che protegge e punisce. Ma nessuna pace duratura può reggersi sul fatto che altri combattano per te.

Gli Stati Uniti, dalla Guerra Fredda a oggi, hanno avuto mano libera sul continente europeo non solo per superiorità strategica, ma per scelta europea. Una scelta codarda, spesso giustificata in nome del benessere, del welfare, della spesa sociale. Ma una civiltà che risparmia sulla propria difesa per finanziare se stessa, in realtà baratta se stessa. Si tiene in piedi solo perché altri vigilano sui suoi confini. E quando la vigilanza americana si allenta — come accade oggi con Trump — allora l’Europa si scopre nuda, senza più illusioni.

L’illusione multilaterale e la realtà imperiale

I leader europei, negli anni, hanno scambiato il soft power per indipendenza. Hanno creduto che bastasse la diplomazia per garantirsi spazio nel mondo, che la forza dell’economia fosse sostitutiva della forza militare. Hanno pensato che l’ordine internazionale potesse reggersi senza conflitto. Ma l’Ucraina ha smentito tutto. Il Medio Oriente lo ha reso evidente. E la Cina, con la sua espansione silenziosa, sta completando la lezione.

Nel nuovo disordine mondiale, chi non ha i mezzi per minacciare o per dissuadere non viene invitato alla tavola dei decisori, ma si siede dove gli viene detto. È così che funziona ogni equilibrio imperiale: gli imperi si formano non solo perché dominano, ma perché gli altri obbediscono. E l’Europa, nei fatti, ha obbedito. Ha accettato la presenza pervasiva di basi americane, la subordinazione della sua intelligence, la dipendenza da scudi altrui. Ha scelto la sicurezza a credito, senza rendersi conto che ogni debito geopolitico si paga, prima o poi, in autonomia perduta.

Il caso Nato: dalla protezione alla dipendenza

La Nato, per gli Stati Uniti, non è mai stata un atto di filantropia. È uno strumento di proiezione strategica, una rete di influenza, un apparato che consente a Washington di mantenere le sue truppe in Europa e controllare il quadrante eurasiatico. Ogni base militare americana in Europa è una sentinella imperiale. Ogni esercitazione congiunta, ogni missione sotto comando USA, ogni missile installato “per protezione” è, in fondo, un atto che ricorda chi comanda.

La recente ambiguità di Trump sull’Articolo 5 — il cuore della Nato, quello che prevede la difesa collettiva — lo ha reso palese: se il presidente americano può decidere in autonomia se proteggere o meno gli alleati, allora la Nato non è una alleanza, ma un ricatto potenziale. E l’Europa, ancora una volta, è spettatrice. Incapace di rispondere da sola, costretta a elemosinare rassicurazioni, a rinegoziare la propria esistenza dentro parametri che non ha stabilito.

Senza difesa comune, nessuna politica estera

La verità è semplice, ma inaccettabile per la retorica europea: senza un esercito comune, l’Europa non esiste. Ogni proposta di politica estera condivisa, ogni posizione sulle crisi globali, ogni appello alla mediazione, è retorica vuota se dietro non c’è una forza armata capace di farla valere. Il mondo ascolta chi ha potere. E il potere, oggi, è militare, tecnologico, energetico. L’Europa ha rinunciato a costruire un potere militare autonomo, e ora rincorre il tempo perduto.

C’è ancora chi — come Salvini o Schlein — si oppone alla difesa europea, per ideologia o convenienza. Ma è un’opposizione miope, che confonde l’ideale della pace con la passività della sottomissione. L’alternativa non è tra guerra e pace, ma tra essere protagonisti o essere terreno di gioco per altri. Chi rifiuta l’idea di un’Europa armata, armata in modo europeo, sceglie consapevolmente una dipendenza permanente.

Un destino da scegliere

Il tempo delle illusioni è finito. L’Europa può ancora scegliere. Può decidere di costruire una propria forza difensiva, una industria bellica integrata, una catena decisionale autonoma. Può riconoscere che la storia non è finita e che la potenza è l’unico linguaggio che garantisce spazio politico nel XXI secolo. Oppure può continuare a vivere nell’illusione della protezione americana, aspettando che la prossima crisi mondiale dimostri, ancora una volta, che chi non sa difendersi non ha diritto a decidere.

Il colonialismo del nostro tempo non si impone con le flotte, ma con le alleanze sbilanciate. E la libertà, oggi come sempre, comincia dal saper dire: questa guerra la combatto io, con le mie armi, per le mie ragioni. Fino a quel giorno, l’Europa resterà ciò che ha scelto di essere: una colonia elegante che ancora si crede impero.

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