
Uno scambio gelido, un’accusa pesante e una stretta di mano seguita da un “vergognati” sibilato in aula. Si è consumato così, a Roma, l’ennesimo duello tra Roberto Saviano e Matteo Salvini, stavolta in un’aula di tribunale. L’autore di Gomorra è imputato per diffamazione a causa di alcune affermazioni rilasciate nel 2020, quando definì il leader della Lega “ministro della Malavita”, con un riferimento, secondo lui, “letterario” a Gaetano Salvemini. Ma per Salvini, quella frase ha avuto tutt’altro peso.
Dopo tre rinvii, il vicepremier e ministro dei Trasporti si è presentato in aula come parte offesa, raccontando al giudice la sua versione: “All’epoca ero da poco ministro dell’Interno. Il mio staff mi segnalò i post di Saviano, che è una figura pubblica e influente. Quelle parole vennero condivise da milioni di persone”.
Il riferimento è ai post social dell’estate 2020, in pieno scontro politico sull’immigrazione. Saviano non usò mezzi termini: “Quanto piacere le dà veder morire bimbi innocenti in mare?” scrisse, accusando il ministro di fomentare l’odio e bollandolo come “ministro della Malavita”. Un’etichetta che, per Salvini, “non aveva nulla di letterario, era un insulto”, ha detto rispondendo al pubblico ministero Sergio Colaiocco.
Il pm ha chiesto anche se l’origine della polemica fosse da ricondurre a un dibattito sulle scorte. “La politica – ha chiarito Salvini – non ha alcun potere nell’assegnazione o revoca delle scorte. In quel caso si trattava solo di un attacco politico.”
Poi, fuori dall’aula, il ministro ha raccontato un ulteriore retroscena: “Gli ho teso la mano e lui mi ha detto ‘vergognati’. È un maleducato, ma non è certo un reato”. Tuttavia ha ribadito: “Se qualcuno mi dà del mafioso o dell’amico della ‘ndrangheta, per me non è normale. Non lo è per un ministro, un padre, un cittadino. I clan li abbiamo combattuti”.
La battaglia legale tra i due, che si intreccia da anni con una profonda rivalità politica e ideologica, è destinata a lasciare il segno anche sul piano mediatico. In attesa della sentenza, il processo rilancia la riflessione su libertà di espressione, limiti dell’invettiva politica e responsabilità pubblica delle parole.