
Non è un colpo secco, né uno schianto. È qualcosa che lavora dentro, in silenzio. Prima ti chiude lo stomaco, poi ti toglie il fiato, infine la voce. Ma non subito. Prima ti lascia giorni di agonia in cui continui a sentire quello che gli altri non possono vedere: la tua colpa, anche se non ce l’hai. È così che può morire un uomo come Matteo Formenti, un uomo che ha fatto tutto giusto, fino al momento in cui ha pensato di non aver fatto abbastanza.
Lo hanno trovato ai piedi del Monte Orfano, due runner, in un sentiero che porta tra gli alberi e i pensieri. Aveva un sacchetto di plastica sulla testa. È morto così, soffocando nel silenzio che si era costruito attorno. Di lui, nei giorni precedenti, restavano solo il vuoto e le domande. Era scomparso dopo l’annegamento di un bambino di quattro anni nel parco acquatico dove lavorava, il “Tintarella di Luna”. Aveva detto alla madre che andava a lavorare. Invece andava a morire.

La solitudine di chi si sente colpevole
Formenti aveva 37 anni. A Chiari, nel Bresciano, tutti lo descrivono come un ragazzo schivo, serio, generoso, sempre presente alle sagre, nelle attività di volontariato. Uno di quelli che non alzano la voce. Non un uomo fragile: un uomo normale. E proprio per questo la sua fine è così devastante. Dopo la morte del bambino, gli inquirenti lo avevano iscritto nel registro degli indagati per omicidio colposo, un atto dovuto. Ma per lui deve essere stato un atto irreparabile.
Non è il processo a ucciderti. È il processo che ti fai dentro. È il senso di colpa, che diventa più reale del fatto stesso. Il giudice interiore non ti lascia appello. Tu sei colpevole, perché eri lì, e non hai impedito la morte. Non conta che tu non fossi vicino alla vasca giusta, non conta che ci fossero altri bagnini, che il bambino fosse sfuggito al controllo del padre. Conta solo che tu eri il bagnino, e non hai salvato una vita.
Gli appelli, le parole, il muro
Lo hanno cercato, gli hanno scritto, gli hanno parlato anche senza sapere se potesse ascoltare. Il sindaco di Chiari, Gabriele Zotti, gli aveva lasciato un messaggio pubblico: “Ti aspettiamo a braccia aperte”. Un chirurgo, Andrea Salvi, aveva provato a ricordargli che non era Dio, che nessun uomo può evitare ogni errore. Ma quando la realtà si deforma, quando l’autocolpevolizzazione ti isola, nemmeno la voce degli affetti riesce a penetrare quel muro.

Lo sguardo che Matteo lascia in alcune foto è disarmante: un sorriso appena accennato, occhi buoni. Ma non basta a proteggerlo. Le sue ultime ore sono state probabilmente un precipizio. Un uomo solo, convinto che tutto fosse già finito, che nessuno potesse capirlo, che la sua colpa avesse un peso eterno.
Il dovere che uccide
Ciò che più fa paura in questa storia è che Matteo non era un colpevole, non ancora, forse mai. Eppure si è sentito tale. Il suo gesto rivela un dato che riguarda tutti: viviamo in un’epoca in cui la responsabilità è diventata terrore. I lavori di cura — bagnini, infermieri, medici, insegnanti — sono sempre più sottoposti al peso di una perfezione impossibile, dove ogni errore è potenzialmente una colpa capitale. Ma questo peso è insostenibile.
Nel caso di Matteo, due vite sono state spezzate. Quella del bambino, caduto in piscina. E quella dell’uomo che non ha retto all’idea di essere il colpevole di qualcosa che non aveva voluto, né scelto. Non possiamo sapere cosa sarebbe successo se qualcuno fosse riuscito a intercettare davvero il suo dolore. Ma possiamo sapere — e dobbiamo dire — che non è l’errore a uccidere, ma l’incapacità collettiva di accogliere chi teme di aver sbagliato.
Non Dio, solo un uomo
Il medico lo aveva scritto bene: “Non sei Dio”. E questa frase dovrebbe valere per ciascuno di noi. Perché se trasformiamo ogni incarico in un altare e ogni responsabilità in un potenziale tribunale, allora chi sbaglia — o crede di aver sbagliato — sarà solo. Matteo non ha scelto di fare l’eroe. Voleva solo fare bene il suo lavoro. E alla fine, proprio questo desiderio lo ha ucciso.
Chi oggi lo giudica, o lo assolve, o semplicemente lo piange, dovrebbe tenere a mente che il dolore non si misura col codice penale, ma con lo sguardo umano. E lo sguardo umano, stavolta, ha fallito.