
Una relazione di 129 pagine stronca il decreto sicurezza varato dal governo Meloni. A firmarla è l’Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di Cassazione, che nella sua relazione n. 33/2025 evidenzia come il provvedimento presenti criticità gravi sotto il profilo della legittimità costituzionale, sia nel metodo di adozione che nei contenuti.
Il documento, pur non vincolante, raccoglie e amplifica le perplessità espresse da larga parte della comunità giuridica. L’uso dello strumento del decreto-legge, affermano i giudici, appare privo dei requisiti di “necessità e urgenza”, dato che il testo ingloba un disegno di legge già in discussione in Parlamento. Il ricorso al decreto, motivato dal governo con la necessità di “evitare ulteriori dilazioni al Senato”, non basta: la Corte Costituzionale ha chiarito in più occasioni che non è ammissibile una giustificazione generica.
Contenuti disomogenei e norme pericolose
Altro punto critico è l’eterogeneità del provvedimento. Il decreto accorpa temi disparati, dalla sicurezza urbana all’ordinamento penitenziario, dal terrorismo alla canapa, senza un filo logico o coerenza normativa, violando così i canoni richiesti per l’uso dei decreti-legge.
Nel merito, la relazione elenca oltre trenta profili problematici, alcuni dei quali definiti particolarmente allarmanti. Fra questi, la norma che estende l’impunità agli agenti dei servizi segreti, autorizzandoli persino alla costituzione di gruppi eversivi, e le cosiddette norme anticortei, che introducono aggravanti per il solo contesto o luogo in cui avviene una manifestazione.
“Terrorismo della parola” e dissenso criminalizzato
Pesanti dubbi vengono sollevati anche sul nuovo reato di “terrorismo della parola”, che punisce la semplice detenzione di materiale non meglio definito, anticipando pericolosamente la soglia della punibilità. Si tratta, osserva la Cassazione, di una norma che rischia di criminalizzare condotte preparatorie lontane dal reato vero e proprio.
Altre critiche colpiscono le nuove fattispecie che mirano a reprimere il dissenso in carcere e nei CPR, come i reati di rivolta carceraria e resistenza passiva, così come le aggravanti previste per chi manifesta in prossimità di stazioni e metropolitane.
Norme discriminatorie e misure antimafia stravolte
Particolarmente gravi per i giudici sono le norme che riguardano le detenute madri, basate su una visione del “diritto penale d’autore” che punisce in base al contesto sociale più che alla condotta specifica, minando i principi di uguaglianza e non discriminazione.
Infine, la Cassazione denuncia il rischio di stravolgimento delle misure antimafia. Tra le norme bocciate c’è quella che consente ai prefetti di allentare le interdittive antimafia, o quella che impone il licenziamento automatico dei dipendenti con legami familiari con soggetti condannati per mafia: disposizioni che cozzano con anni di giurisprudenza consolidata e con la Costituzione stessa.