Il presidente americano Donald Trump torna a dettare la linea anche sul fronte fiscale, e questa volta lo fa strappando una significativa concessione sul terreno della Global minimum tax, la tassa minima globale per le multinazionali che avrebbe dovuto rappresentare la pietra miliare nella lotta all’elusione fiscale. La presidenza canadese del G7 ha annunciato un’intesa tra i grandi del mondo per una “soluzione parallela” che consente esenzioni alle imprese statunitensi, in nome della “sovranità fiscale”.
L’accordo, formalmente celebrato come un passo verso la cooperazione, ha suscitato reazioni contrastanti. Il segretario generale dell’Ocse, Mathias Cormann, lo ha definito “una pietra miliare nella cooperazione fiscale internazionale”, ma dietro le parole di circostanza appare evidente l’imbarazzo per una scelta che, di fatto, smonta il cuore della riforma firmata nel 2021.

Trump minacciava ritorsioni, ora ottiene l’eccezione
A spingere il G7 verso il compromesso è stata la minaccia, inserita nel cosiddetto “Big beautiful bill”, la legge di bilancio americana, di imporre tasse di ritorsione contro i Paesi che avessero fatto applicare la tassa minima. Una pressione che ha trovato sponda nel lavoro diplomatico del Tesoro Usa, guidato da Sott Bessent, e che ha finito per convincere i partner internazionali ad accettare una via d’uscita utile soprattutto a Washington.
Il ministro italiano dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha commentato l’accordo come un “compromesso onorevole” raggiunto con l’amministrazione americana per evitare sanzioni alle imprese europee. “Protegge le nostre imprese dalle ritorsioni automatiche originariamente previste dalla clausola 899 dell’Obbba”, ha dichiarato, aggiungendo che ora l’obiettivo sarà favorire il dialogo e la semplificazione.

La tassa voluta nel 2021 rischia di svuotarsi
La Global minimum tax era nata nel 2021, su iniziativa dell’Ocse, con l’obiettivo di imporre un’aliquota minima del 15% sui profitti globali delle multinazionali, in particolare delle Big Tech americane, che da anni sfruttano sistemi di pianificazione fiscale aggressiva per versare imposte molto più basse di quelle dovute. Ma gli Stati Uniti, anche prima del ritorno di Trump alla Casa Bianca, non avevano mai davvero ratificato l’accordo.
Con l’attuale svolta, la tassa rischia di restare in vigore solo in Europa, con scarsi benefici di gettito e un aggravio di oneri amministrativi per le imprese. “In assenza di adesione Usa – hanno avvertito i legali Antonio Tomassini e Christian Montinari – l’iniziativa rischia di rimanere una questione esclusivamente europea e particolarmente onerosa”.

Il rischio di un cedimento strutturale
Secondo Alberto Trabucchi, condirettore generale di Assonime, la soluzione ora è “semplificare il meccanismo e farne uno strumento per rafforzare la coesione fiscale europea”. Una lettura pragmatica, ma che fotografa un fallimento: quello di un progetto nato per riequilibrare i meccanismi del capitalismo globale e oggi trasformato in una trattativa a più velocità.
Il giudizio più netto arriva da Markus Meinzer, direttore politico del Tax Justice Network: “Si tratta di un cedimento frettoloso”, dice, che rende “morto l’accordo sull’imposta minima” e riapre la strada a nuove asimmetrie. Sullo sfondo resta infatti il dossier della Digital tax, che tocca direttamente i colossi americani del tech, e che gli Usa continuano a considerare un’ingerenza inaccettabile ai danni delle proprie imprese.
Il modello americano resta dominante
Ancora una volta, l’approccio unilaterale degli Stati Uniti riesce a piegare le regole multilaterali. Come già accaduto sui dazi o sulla tassazione digitale del Canada, l’amministrazione americana ha mostrato di preferire la pressione bilaterale agli impegni multilaterali. Un approccio che gli attivisti considerano tossico per qualsiasi tentativo di costruzione di un sistema fiscale equo e condiviso.
Il rischio ora, avvertono diversi osservatori, è che l’intero impianto della fiscalità internazionale venga rimesso in discussione. E che, come spesso accade, siano proprio le economie europee a farsi carico delle norme più restrittive, mentre le grandi aziende americane continueranno a operare in deroga.